L’ombra si era staccata dal suo soggetto, vagava in solitudine e disperata, senza radici, senza appoggi né appartenenza, fino a quando non incontrò uno specchio, non rotto, frantumato, o spezzato, ma corrotto nella sua integrità da una lesione che interrompeva la sua funzione di riflettere l’immagine che si mostrava così doppia e divisa insieme. Era un’ombra strana, quella che si rifletteva, non era armonica, perché l’armonia sta nell’unità, quando non si ferma al particolare, al dettaglio. E’ allora che diventa sinfonia. E poiché “Il mondo si sposta per cedere il passo a chiunque sa dove voglia andare”, come veniva detto in un celebre film*, l’ombra ancora più disperata e confusa, si mise in cerca di qualcosa o qualcuno che potesse essere l’altra sua metà. Camminò a lungo, tra oggetti e persone inutilmente. Si era fatto quasi buio e ormai stava per scomparire senza avere trovato la sua ragione di vita quando una piccola luce la richiamò dal fitto del bosco in cui si era addentrata. Passò oltre la porta in una stanza illuminata solo dal fuoco scoppiettante di un camino che rifletteva ombre e luci sui muri in una fantasmagorica festa che nulla aveva di concreto. Le ombre danzavano e sembravano felici, eppure nulla avevano a cui appoggiarsi. Si unì allora alla allegra compagnia pensando di avere trovato ciò che cercava, ma presto il fuoco si spense e le ombre furono inghiottite dal nulla. Una fiammella occhieggiò dalla brace e la nostra ombra ebbe un rigurgito di vita, scappò oltre lo spiraglio della finestra verso il raggio di sole, trovò un bambino che correva dietro una palla sul prato, lo agganciò e non si lasciarono mai più. Crebbero insieme. L’armonia diventò sinfonia. Aveva ritrovato la sua identità, perché come ombre vaghiamo nello spazio quando perdiamo la nostra identità.
Concludo con alcuni versi tratti dall’album: L’elogio dell’ombra di Borges:
LE COSE
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e la scacchiera,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
non sapranno mai che ce ne siamo andati.
***
Vissero il loro destino come in un sogno, senza sapere chi fossero o cosa fossero.
Forse accade la stessa cosa a noi.
Siamo il nostro ricordo,
siamo museo immaginario di mutevoli forme,
mucchio di specchi rotti.
PIAZZA SAN MARTIN –
In cerca della sera
avevo invano esaurito ogni strada.
Già l’ombra invadeva gli atri delle case.
Con fine lucentezza di mogano
la sera tutta riposava nella piazza,
calma e matura,
benefica e sottile come un lume,
chiara come una fonte,
grave come contegno d’uomo in lutto.
Ogni affanno si acquieta
sotto l’assoluzione degli alberi
-jacarandas, acacie-
che con pietose curve attenuano
la rigidità dell’impossibile statua
e con il loro intrico esaltano
la gloria delle luci equidistanti
dal tenue azzurro e dalla terra rossiccia.
Come si vede bene la sera
dalla facile tranquillità delle panchine!…..
***
La frase citata è tratta dal film “Quella nostra estate” con Henry Fonda e Maureen O’Hara,
Nadia Farina