Mar. Nov 12th, 2024

La testa che gira irrequieta sul cuscino e il corpo che sembra non accompagnarla, le mani che sollevano le coperte per allontanarle. Sembra fare molto caldo e invece no, e allora su di nuovo , alzare le braccia per coprirsi del tutto.  Srotolare la camicia che si è avvolta come una benda a fasciare il corpo riluttante alla stoffa. Questo è il non dormire, questo è quando il pensiero occupa la mente per cercare la parola quella sola, che dà tregua all’anima. Quella parola da cui nasce l’ispirazione come la goccia d’acqua che sgorga da un muro e fa presagire una fonte nascosta.  La mente vaga tra i colori e i ricordi, i fatti e  gli avvenimenti, le sensazioni e le atmosfere, le cose e  le persone, quelle di oggi, quelle di ieri, la nube bianca che nasconde il futuro, ma la parola, quella sola, non viene ancora. Quella da cui cominciare, quella che indica la strada, quella che apre le porte al mondo della pagina bianca, quella che oggi non svela i suoi segreti.

Accendere la luce, spegnere la luce,  per riaccenderla un’altra volta.

Non è la lampadina che può illuminare il pensiero.

Accendere la radio mettere la cuffia per non disturbare chi ti è vicino, spegnere la radio.  Non è la voce della radio ad accendere la mente.

 Aprire un libro, scorrerlo senza leggerlo. Non è il libro che colora la pagina ancora da riempire.

Quella parola nascosta tra le pieghe della mente non vuole entrare nella vita.

Forse, quella parola sta giocando a nascondino, forse, vuole solo invitare a fermarsi per ascoltare i battiti del cuore. Fermarsi un attimo eterno dentro se stessa, fermarsi e  lasciar scorrere il fiume in piena dei pensieri senza meta,  alla ricerca della loro casella.

Ma… sono proprio sicura che il mondo abbia bisogno delle mie parole? Dopo Proust che le ha scritte inanellandole, una dopo l’altra, come nessuno o pochissimi dopo di lui, dopo Manzoni che le ha lavate dando a ciascuna il significato che le è propria, dopo Pirandello che le ha inconsapevolmente , o forse, no, donate in modo ambivalente, dopo Dante che ha attraversato i continenti estremi dell’aldilà, dopo Borges, Calvino, che hanno giocato con i labirinti della mente, come e perché dovrei scrivere? Forse, perché su un microscopico pianeta esiste un lettore che desidera leggere le mie parole nate dal ricordo, dalle esperienze, dall’ascolto… perché io lo so di avere ascoltato, per me stessa, per tramandare il passato, perché diventassero grano i semi dei racconti dei nonni, dei genitori, di chi ha i capelli bianchi, quei racconti nati spesso intorno a un tavolo di cucina, davanti ad un camino, mangiando castagne e bevendo il dolce vino d’uva fragola, o semplicemente passeggiando. Tutti, ormai, giovani e meno giovani, con la testa sullo smartphone, altro non vedono che un effimero e volatile presente. Nessuno ascolta più le storie del tempo che fu. Nel futuro avremo tanti orfani di storie. E allora, forse, un senso l’ho trovato a questa spasmodica ricerca delle parole. Vivono  sul foglio bianco, non più segni soltanto, persi tra le pagine ordinate di un vocabolario. Vivono coscienti  e consapevoli  la vita del Dare. 

Vivono e danno vita  le parole ,  il cui non  esistere lascerebbe ogni uomo perso nel silenzio, nella solitudine, nel vuoto dell’incomprensibile, non più parole ma frazioni di umanità sul foglio in bianco e nero.

Parole che vibrano che ancora sperano,  parole non più solo parole. Se non per oggi, per quel domani in cui, forse, un orfano di storie, ha desiderio di conoscere ciò che è stato.

(Nella foto un’Opera di Nadia Farina)

Nadia Farina

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