Gio. Nov 21st, 2024

L’assassinio di Giulia Cecchettin ha scosso l’opinione pubblica, la storia di Giulia ha bussato alle coscienze di tanti, tantissimi Italiani, uomini e donne di ogni età. È un dato innegabile e proprio per questo merita di essere analizzato.

Occorre, in modo preliminare e necessario, sgombrare il campo da un equivoco. Non esiste, numericamente, una emergenza femminicidi. I reati violenti, omicidi in testa, in Italia sono, da almeno trent’anni (il confronto sarebbe impietoso se andassimo ancora più indietro, a quaranta o cinquanta anni fa), in drastico calo. I femminicidi, termine assai controverso ma che indica in sintesi i casi in cui le donne sono uccise per motivi legati al genere, spesso da loro compagni o ex compagni, sono meno in calo dei reati violenti, e pure degli omicidi, e dunque in proporzione pesano di più (2 su mille fa 0.2%; lo stesso 2 su 100 fa 2%: i numeri e le percentuali sono esempi , ovviamente, è solo per intenderci), ma non sono in aumento, e non sono nemmeno in numero tale da poter parlare di una emergenza (su questo basta cercare confronti con altri Paesi, anche europei).

 Che ci sia più attenzione, più allerta sui reati di genere, femminicidio in primo luogo, ma in generale sulla violenza contro le donne, è ovviamente un bene. Significa che la società non tollera più, non nasconde, non occulta, non sminuisce, e ciò è segnale positivo di un progresso nella vita civile.

Proprio per questa ragione è invece incredibile la reazione di un pezzo dell’opinione pubblica. Quella, per intenderci, secondo la quale la terribile storia di Giulia mette sotto processo tutti gli uomini. Quella secondo la quale i casi di femminicidio sono prodotto del patriarcato, e covano silenti in ogni maschio, e ogni maschio deve o dovrebbe sentirsi in colpa. Come se l’essere maschio fosse assimilabile all’appartenere a una setta, dedita alla violenza.

E soffiando sulla giusta, naturale commozione di questo momento di lutto, si offrono due soluzioni. Entrambe apparentemente facili quanto entrambe fatalmente inutili e fallimentari. La stretta punitiva (secondo la dottrina del panpenalismo, di cui l’Italia oramai è satura) da un lato; l’educazione affettivo-sessuale nelle scuole dall’altro.

Che inventare nuove fattispecie di reato, o aumentare le pene per reati esistenti, non serva a ridurre l’esistenza dei delitti è dato noto a chiunque si sia mai interessato di giustizia.

Che qualche ora di una materia priva di rigore epistemologico non serva in alcun modo a forgiare esseri umani meno inclini alla violenza è noto a chiunque sia dotato di buon senso: basta aver letto o anche solo ascoltato un brano della Genesi, per dire.

In realtà la storia di Giulia e soprattutto del suo assassino Filippo dovrebbe indurre a un sovrappiù di riflessione intorno alla questione della presunta correlazione tra violenza di genere e patriarcato. Se, come pure chi sostiene il rapporto causa-effetto tra cultura patriarcale e violenza di genere crede e teorizza, il patriarcato è al tramonto, in declino, allora le nuove generazioni dovrebbero esserne meno preda delle precedenti. Sono più attente delle generazioni precedenti a un linguaggio rispettoso, sono meno inclini agli stereotipi di genere, sono meno forgiate da pose e atteggiamenti sessisti o machisti. Se ciò è vero, allora forse la chiave è altrove.

 Sicuramente in questo caso, ma con le dovute distinzioni anche in altri casi. La chiave non è una cultura derelitta (per questi, poco più che ventenni, praticamente un reperto archeologico), ma la cultura, l’humus in cui sono cresciuti. Fatta, e gli insegnanti conoscono bene il tema, di ansia, competizione, identità deboli costruite solo su emulazione, confronto, collisione, che possono crollare facilmente e dunque distruggono, incapaci di progettare e proiettarsi fuori da conferme ricercate ossessivamente. Niente di tutto ciò ha le proprie radici nel patriarcato. C’è ancora da scavare.

Alessandro Porcelluzzi

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