Pezzule saglie, Pezzule scenne:
pe’ tutt’ ‘o munno se va dicenne.
‘A ggente dice: c’avimma fà’
‘nce nammaì, o ajmma restà?
Nisciuno dice ‘na cosa vera,
nisciuno sape ‘na verità
pe’ tutto quanto ‘sta succerenno
qua’ destino c’avimme aspettà…
Chi va a Succavo, chi va a Chianure,
Quarto ‘e Marano o Casavatore;
chi va e chi vene, chi scappa e fuje,
rrobba ‘a murì c”o mmale ‘e core!
Quanta scienziate, quanta strumiente
dint”o paese vanno giranno:
nè, che se dice, se sape niente?
‘a ggente chesto va addimannanno!
Nella traduzione in italiano:
Pozzuoli sale, Pozzuoli scende:
se ne parla in tutto il mondo.
La gente chiede: cosa dobbiamo fare
dobbiamo andare via o dobbiamo restare?
Nessuno dice una cosa vera
nessuno sa la verità
per tutto quello che sta succedendo
che destino dobbiamo aspettarci.
Chi va a Soccavo, chi va a Pianura,
Quarto e Marano o Casavatore
chi va e chi viene, chi scappa e fugge
roba da morire con il mal di cuore
Quanti scienziati, quanti strumenti
dentro al paese vanno girando:
né, che si dice, si sa niente?
La gente questo va chiedendo!
Questi versi, che sembrerebbero composti in questi giorni, appartengono invece ad una poesia del 1970, ‘O bbradisismo, scritta dal poeta puteolano Umberto Pandolfi, in occasione del famoso bradisismo di quell’anno e che comportò lo sgombero del Quartiere Terra. Dal ricordo di quelli che subirono quel drammatico evento, si evince tutto lo sbigottimento, la rabbia e infine la rassegnazione nel vedersi costretti a quell’esodo forzato. In poco tempo quel rione puteolano, formicolante di umanità, si trasformò in una terra desolata. Senza più voce.
Gli abitanti, destinati ad altri luoghi limitrofi, non vi fecero più ritorno, se non attraverso i ricordi, raccontati, scritti, o tenuti fino ad allora segreti. Alcuni di questi sono contenuti in una raccolta dal titolo Terre e Moti del Cuore, edita da Valtred Editore. In questo libro di racconti di vita vissuta, c’è anche un mio scritto che sembra stonare con l’insieme, perché non parla di un’esperienza reale, né realistica, ma di una storia fantastica e surreale. Un mio omaggio ad una terra così ferita dagli eventi naturali, ma nello stesso tempo così magica e unica.
Era il 2013 quando fui contattata da una delle organizzatrici di un Concorso, la prof.ssa Giovanna Buonanno, e che prevedeva la stesura di racconti sul tema del Bradisismo a Pozzuoli, soprattutto relativo agli anni ’70, che comportò l’aspetto attuale della Darsena, del Borgo Marinaro, della Piazza, di Via Roma e delle strade attigue. Ma anche a quello del 1983-84.
In occasione del Trentennale, che parte dalla seconda grande scossa tellurica del 1983, e che vede una città profondamente cambiata nelle sue architetture e nell’animo delle persone- come si legge nella prefazione- era stato indetto questo Concorso per evitare che la Memoria degli eventi drammatici di quegli anni venisse dispersa.
Oggi che questo fenomeno è tornato a spaventare da giorni gli abitanti di quell’area, la mia voce vuole tornare a raccontare, come al solito, a modo mio.
Il racconto si intitola “La Signora”.
Ne farò di seguito una breve sintesi, riportando alcune frasi dal testo originale:
Un giornalista, nato a Pozzuoli, ma trasferitosi in una città del Nord da molti anni, ritorna nella sua città per una breve vacanza. Come consuetudine percorre le strade e contatta gli amici di sempre:
“Ed ora sono tornato a casa e la mia città, Pozzuoli, mi respira attorno.
Camminare sulle sue strade ondulate, scomposte, dove i sampietrini quasi rimbalzano sconnessi, dà una sensazione acuta di instabile senso del vivere.
Si percepisce il limite dell’esistenza umana. Della propria esistenza.
Eccomi qua al solito bar, nel posto di sempre nei pressi del lungomare Pertini, in attesa di Stefano.”
Mentre aspetta l’amico per il caffè, come di consueto, scorge una donna seduta ad un tavolino di fronte, ma nota che è circodata da una nuvola di fumo:
“Vedo solo sollevarsi una nuvola di fumo dal tavolino in angolo, in fondo alla sala del locale. Due gambe snelle si accavallano e si sciolgono continuamente, come in una danza. Mi pare scalza.
Continuo a guardare dalla sua parte. Mi sento un voyeur. Forse sto esagerando. Cerco di distrarmi da lei, di non farci più caso. Mi tocco la tasca nella speranza che il cellulare vibri.
La riguardo per un attimo. Il solito fumo.
“Cazzo! Ma quanto fuma questa!” mi ritrovo a pensare.”
Poi la donna come un’ombra scompare. Incuriosito, chiede al cameriere notizie sulla strana signora e viene a sapere che viene al bar dal 13 aprile, beve solo acqua e lascia una lauta mancia in antiche monete che riportano il conio di diversi imperatori romani. Il mistero si infittisce.
Dopo un po’ arriva l’amico a cui, dopo i soliti abbracci e scambio di notizie sulle rispettive vite, confida lo strano incontro di quella mattina e si danno appuntamento per l’indomani, per cercare di svelare il mistero.
Percorrendo il lungomare Pertini, il giornalista ricorda il suo passato e le parole di sua madre. Il dramma vissuto da lei a causa dell’esodo di Rione Terra del 1970. Le sue raccomandazioni:
“- Ricordati piccerì, che la natura va rispettata.- mi diceva – Col bradisismo si deve convivere. Dio ce l’ha mandato e noi ce lo teniamo così com’è. Come un figlio ribelle e caro che ogni tanto si calma e si comporta come si deve e ogni tanto fa il bastardo e ci spezza il cuore. Bisogna saperlo prendere e conviverci. Non c’è mai odio tra una mamma e un figlio. Nessuno vuole mai davvero il male dell’altro. Solo essere compresi e in qualche modo governati.-“
Mentre si incammina verso casa, dove lo aspetta la zia, diventata una sua seconda mamma, è colto da un’mprovvisa strana voglia di rivedere Rione Terra e così devia il percorso e si avvia, dopo aver preso la rampa Raffaello Causa, verso palazzo comunale Migliaresi, nelle cui viscere si nasconde la Pozzuoli sotterranea.
Sta per ritornare sui suoi passi quando la vede passare:
“Sto per riprendere la rampa e ritornare giù quando vedo il fumo. Poi lei.
Il sangue pulsa forte alle tempie.
Mi passa davanti. Procede calma e silente, come un fantasma senza peso né forma.
Una libellula, una foglia autunnale, una piuma d’uccello.
La guardo ammirato.”[…]
Ha capelli lunghi, spettinati, direi, di colore chiaro… biondo cenere. O solo cenere.
La veste è una specie di sottana… sembra fatta di tela grezza. Bretelline fini la sorreggono. Ho un tuffo al cuore, come se una mano me lo strizzasse.
Le gambe sottili hanno il biancore della luce all’alba. L’alba di una mattina di aprile. Chiara e incerta. I piedi scalzi. I talloni rotondi e intatti. Lisci. Quasi scivola nell’incedere. Mesta e sacra.
Non l’ho vista in volto. Ne ho intravisto appena il profilo, quando mi è passata davanti. Ma era annebbiato da tutta quella coltre di nuvolaglia grigiastra.
Da quel poco che ho visto mi è parsa di una bellezza quasi, come dire, innaturale.
Sì, innaturalmente bella.”
La segue, cercando di non spaventarla, anche perché non sa che reazione petrebbe avere.
Arrivati davanti al tempio di Serapide, la donna scompare di nuovo.
Dopo varie ricerche, chiedendo di qua e di là, si reca al porto dove la scorge seduta ad un tavolino, ma, appena lo vede si rialza e va via. L’uomo si fa più audace e, mettendosi al suo fianco, le chiede espressamente chi sia:
“-Chi sei?- insisto e mi avvicino.
Un calore insopportabile mi brucia.
Una mano bianca esce da quel fumo e con un gesto lento mi fa segno di allontanarmi. Mi vieta di avvicinarmi oltre. Ubbidisco. Non so se mi guarda. I suoi occhi di profilo hanno il biancore di un cieco. Sono perso in quell’abbraccio fumoso. L’anima mia trasale, pronta a spiccare il volo. Se lei vuole avermi, io vorrò compiacerla. Avvelenato dal suo steso veleno ne suggo l’aspro frutto nebbioso.”
L’inseguimento continua. Ormai l’uomo è catturato da quella visione:
“Camminiamo un tempo infinito. Non so… forse minuti, ore, non so più calcolarne la durata.
Poi tutto si ferma. Lei s’arresta e abbassa di poco la nebbia.
Io resto fermo. Lei si allontana di qualche passo. Ne scorgo di nuovo la sagoma snella. Ho un dolore muto che mi prende le membra e me le trascina in basso, verso la terra. Resisto e mi guardo intorno. Capisco. So dove mi trovo: in zona Pisciarelli, ad Agnano. Sul versante esterno del vulcano Solfatara. Qui è da poco nata l’ultima fumarola.
Vedo una pozza d’acqua che ribolle. Lei sta camminando dentro. La chiamo “Signora!”, urlo quel nome cercando di fermarla. Ho la gola arsa. La voce mi esce roca. Forse il mio urlo è muto. Forse un gorgoglio anch’esso. Comunque son certo che m’abbia sentito. Si ferma. Si gira appena. Un sguardo bianco di fata. Mai visto niente di più bello, di più inquietante e primitivo insieme.
Poi un salto. Una boccata di fumo s’alza con spruzzi d’acqua.”
Quell’anno, il 2013, era nata una nuova fumarola. Era il 13 aprile.
Anna Bruna Gigliotti