Ora lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.
Io chiuderò gli occhi
E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.
Una è l’amore senza fine.
La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l’estate
Rotonda come un’anguria.
La quinta cosa sono i tuoi occhi.
Questi versi di Pablo Neruda appartengono alla poesia “Pido silencio”, dalla raccolta Estravagario del 1958.
Qui il Poeta, pur con tono elegiaco, resta radicato semplicemente alla terra, percependo il dramma del limite umano.
Questa poesia mi è venuta in mente quando ho appreso la notizia della morte di Michela Murgia, il 10 agosto di quest’anno, all’età di 51 anni, per un carcinoma maligno al rene.
A giugno era stata a Torino dove aveva partecipato ad un incontro su Fernanda Pivano. L’ultimo suo incontro pubblico. Poi ha annunciato di volersi dedicare a chi amava, la sua queer family, – nucleo familiare atipico in cui le relazioni contano più dei ruoli – con Lorenzo Terenzi, che aveva sposato lo scorso luglio, quando ormai le sue prospettive di vita erano di pochi mesi.
Una donna di grande spassore, una combattente.
La Murgia è nata nel 1972 a Cabras, nella regione del Campidano di Oristano, in Sardegna, ed è stata un’attivista, scrittrice e drammaturga, opinionista, critica letteraria.
Per me indimenticabili i suoi video quotidiani di “Buon vicinato” in cui si divertiva a scambiare opinioni su personaggi noti, insieme alla sua amica, la scrittrice Chiara Valerio.
Per non citare la sua partecipazione nel 2016 alla trasmissione di Corrado Augias “Quante storie” su Rai 3, spesso al centro di polemiche molto accese per le sue “stroncature del mercoledì”, in cui criticava in modo tagliente alcuni autori.
A seguire, nel 2017, la conduzione di Chakra, programma di attualità politica e cultura, sempre su Rai3.
E poi ci sono i suoi libri.Tanti.
Per citarne uno: Accabadora, pubblicato nel 2009 da Einaudi. Un romanzo che ha avuto molti riconoscimenti : Premio Dessì. Premio Super Mondello, e nel 2010 il Premio Campiello.
Il titolo trae il suo significato dal termine sardo s’agabbadòra cioè colei che finisce, e fa riferimento ad una pratica, più leggendaria che reale, di alleviare le sofferenze di una persona in fin di vita, aiutandola a morire. L’autrice “svela” la figura di questa donna, la riporta a noi e ne fa un personaggio indimenticabile. Pieno di mistero e di potenza. Amore e morte vanno a braccetto in quel gioco di sentimenti e relazioni antiche e profonde, in cui i figli d’anima contano a volte più di quelli di sangue.
Il romanzo narra la storia di Maria e della sua madre adottiva, Bonaria Urrai, la sarta del paese che, non avendo figli, chiede alla madre naturale di prenderla con sé. Maria diventa quindi la sua fill’e anima. Una benedizione voluta dal cielo per l’anziana donna. Bonaria le offre una casa, un’istruzione e un promettente futuro in cambio di cura per sé nel momento del bisogno.
La sarta però nasconde un mistero. Lei infatti è l’ultima madre, quella che allevia i moribondi e li aiuta nel trapasso. Maria, sebbene senta che la donna le nasconde qualcosa e si insospettisce per le sue uscite notturne, non viene a conoscenza del suo mestiere di accabadora finchè non le viene svelato in età adulta dal suo amico Andrìa. Lo choc per la rivelazione la farà allontanare dall’isola . Trova lavoro a Torino, ma poi ritornerà nella sua terra quando verà chiamata per assistere la Tzia Bonaria ormai morente.
“Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”
Questa è la frase che la sua seconda madre le lascerà in in eredità.
E poi c’è il suo ultimo lavoro: Tre ciotole.
Storie che si incastrano. Personaggi che vivono cambiamenti radicali. Racconti intimi, intensi, attualissimi.
Un modo per costringerci a guardarci dentro.
Io ora ho questo suo ultimo libro sul mio comodino e ne leggo qualche pagina ogni giorno. Per imparare a guardare fuori da me stessa e riflettere sulla complessità del vivere.
Voglio terminare questo mio articolo, che vuole essere un saluto grato ad una grande guerriera, con il prosieguo della poesia del Neruda. Un omaggio di terra, anima e cuore.
Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.
Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.
Ora se volete andatevene.
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.
Accade che sono e che continuo.
Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.
È che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.
Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.
Anna Bruna Gigliotti
Cara prof’ Anna bruna. mi permetta e non mi massacri..c è forse troppo pietismo nel suo ultimo articolo al di là della morte della sig.ra Murgia??