No, non intendo l’anno scolastico, e nemmeno gli esami. Mi chiedo, sparo nel buio, se sia finita l’era della scuola. Il dubbio non è ozioso: la scuola è un fenomeno storico, ha avuto una origine (e cause molteplici, ma precisamente individuabili), dunque può avere una fine.
La scuola è persino, se paragonata alla lunga linea del tempo dell’umanità, un fatto recente. Solo con molte e improprie forzature chiamiamo “scuola” circoli, sette, cenacoli del mondo classico, medievale o della prima modernità. La scuola è fenomeno recente, figlia di Stati (occidentali, europei) che bramavano il monopolio. Anche dell’istruzione.
La scuola, statutariamente per così dire, nasce avversaria e alternativa rispetto alla Chiesa, alle chiese e sottrae spazio, terreno a ciò che era stato dominio incontrastato della famiglia. “Abbiamo un’occasione unica e irripetibile di prendere possesso del bambino quando le lacune dell’organizzazione sociale non sono ancora in grado di renderlo indocile alla vita comunitaria” (Durkheim).
Certo che questo compito, non siamo mica ingenui, si mescolava nelle intenzioni alle richieste dell’industria. E le trasformazioni della scuola accompagnavano, a volte persino anticipavano, le richieste di un mondo produttivo e sociale in continuo divenire. La scuola vecchia era presa a colpi di piccone, ma la mano che armava quel piccone era la stessa che dominava il mondo nuovo. Ciò che era costante, in questo continuo divenire, era solo l’ordine impartito alla scuola: contribuire all’addestramento alla vita comunitaria presente e, se possibile, futura.
Oggi la crisi è così profonda che chi critica la scuola di oggi è costretto a disseppellire le scuole di ieri (Gentile o Don Milani, sempre nostalgismo è). I recenti fatti di cronaca, ma ancor più l’enfasi e gli umori collettivi, raccontano di una caduta tendenziale del saggio di credibilità della scuola. La famiglia sembra rivendicare la primazia perduta. Ma è illusione. È la società a non avere più richieste, per cui il messaggio “fa’un po’ come ti pare” giunge tanto alla scuola quanto alla famiglia.
Non sapendo più se chiedere empatia o disciplina, eccellenza o inclusione, promozioni o bocciature, la famiglia italiana si arrangia ad agire come tradizione insegna. Ovvero a chiedere rigore, disciplina, bocciature, insegnanti irremovibili per tutti i figli (degli altri). Per i figli (propri), in assenza di prospettive per il futuro (non le ha quasi nessuno, in realtà, è la crisi permanente, baby), meglio goder dell’oggi. Gli stessi insegnanti, maledetti ieri perché troppo morbidi, oggi per fortuna hanno riconosciuto il valore dei figli in pagella. E, ove non fosse così, meglio TAR che mai: un giudice “di scopo”, come lo definì qualcuno, si trova sempre.
Alessandro Porcelluzzi