O frenetiche notti
Se fossi accanto a te,
Queste notti frenetiche sarebbero
La nostra estasi!
Futili i venti
A un cuore in porto:
Via la bussola,
Via la carta.
Vogare nell’Eden!
Ah, il mare!
Se potessi ancorarmi
Stanotte in te!
Questi versi appartengono alla poesia “O frenetiche notti” poetessa statunitense Emily Dickinson (Amherst, 1830 – Amherst, 1886).
Le sue opere sono state pubblicate solo dopo la sua morte e oggi è considerata tra i maggiori lirici di tutti i tempi.
Non c’è trama, non c’è narrazione: solo emozioni. Un erotismo espresso in modo delicato con parole quali : frenetiche notti, estasi, ancorarmi in te.
E poi quell’Eden che promette paradisi e quel mare, liquido primordiale, dove la vita respira.
Ho voluto iniziare questo mio articolo con la poesia della Dickinson proprio perché nei suoi versi ho sempre sentito in modo tangibile una grande malinconia, sensibilità, mistero, ma anche desiderio, vita, eros.
Questo stesso sentire è espresso nello spettacolo teatrale liberamente tratto dal libro “L’uomo seme” di Violette Ailhaud, per la regia di Milena Bosetti.
La rappresentazione è andata in scena il 29 aprile nel teatro Cristo Re, all’interno della la rassegna Teatro giovani, promossa dall’Assessorato alle Politiche giovanili e Pari opportunità di Brescia.
Sul palcoscenico sei attrici: Anna Bruna Gigliotti, Cristina Nappi, Daniela Dante, Fabiana Biemmi, Mara Capuzzi e Sofia Beretta.
Musiche e scenografia a cura di Milena Bosetti.
Del testo, da cui è tratto lo spettacolo, avevo già parlato in modo esaustivo in un mio precedente articolo di qualche anno fa, uscito su questo stesso Periodico, e precisamente il 1 febbraio 2020.
Per chi volesse approfondire l’argomento, di cui comunque andrò a fare una breve sintesi, può cercarlo nell’archivio del giornale.
In quell’anno, prima che ogni cosa si fermasse a causa del lockdown, avevamo messo in scena una performance di sola lettura di alcune pagine del lungo racconto “L’uomo seme”, con l’intento di trasformarlo, a breve, in un’opera teatrale. Cosa che si è potuta realizzare solo ora.
La complessità della messa in scena, fatta di momenti di narrazione e di azione, di recitazione, di musica e poesia, ha richiesto lavoro e impegno non indifferenti.
La Bosetti ama arricchire i suoi spettacoli con suggestive scenografie.
Anche in questo suo ultimo, in ordine di tempo, lavoro, ha costruito un albero stilizzato, fisso sulle scene, a simboleggiare la vita smarrita, inaridita, persa, e poi rifiorita attraverso la forza delle donne.
Sul proscenio della terra, molta terra, che ne ricopriva tutta la lunghezza e su cui le attrici, inginocchiate e a piedi scalzi, compivano gesti quasi rituali di semina e cura, per far germogliare i semi e quindi la vita, in una regione privata degli uomini.
La storia, ambientata in un paesino della Provenza, raccontata da una ottantenne Violette Ailhaud, parla di un episodio della sua vita. Nel 1852 l’autrice aveva solo 17 anni e gli uomini del suo villaggio, repubblicani, vennero deportati, imprigionati o uccisi perché ostili a Luigi Napoleone.
Per due anni le donne restarono prive di uomini, con il destino funesto di vedere la propria terra inaridirsi e il proprio futuro estinguersi inesorabilmente.
( A tal proposito riporto alcuni versi tratti dalla poesia, composta per questo spettacolo, dalla poetessa e attrice Daniela Dante e recitata da lei stessa)
È la soglia di casa
Che di te più di tutto
Piange l’amore perduto
Respira nei cumuli di polvere
Che si accumulano in attesa
Dei passi
Rimbalza la tua voce
Negli abiti appesi
Come eco nei monti
Brusio d’assenza.
A questo punto le donne fecero un patto: si sarebbero dovute dividere il primo uomo che fosse arrivato al villaggio, ma senza innamorarsene mai.
E così fu. L’amore in verità non poté essere soffocato, ma il patto fu più forte.
L’uomo alla fine se ne andò, lasciando il paese rifiorito di nuova linfa, quando alcuni uomini, che si erano salvati, ritornarono.
“Alla fine dell’estate una sera l’uomo si è fatto la sua borsa, sapevo che era il suo dovere, il suo diritto, la sua libertà, il suo cammino. Ho sorriso e ho approfittato del mio uomo, fino all’alba, come la prima volta”
“Non sapremo mai se fuggisse da qualcosa o se fosse a caccia di qualcosa.
Con lui la felicità ha fatto il suo nido nella nostra disgrazia e il resto non interessa a nessuna di noi…
Il suo nome era Jean”
La Bosetti, per dare maggior valenza di testimonianza allo spettacolo, lo ha arricchito con due poesie, la prima ucraina e la seconda curda, che ci parlano di un quotidiano perduto, ma nello stesso tempo della resilienza combattiva delle donne. Della loro speranza in un futuro illuminato.
Un esempio per le generazioni che verranno.
Riporto alcuni versi tratti dalle due poesie: i primi di Halyna Kruk poeta, traduttrice e professoressa di letteratura medievale presso la Lviv State University. Seguiranno quelli scritti da una ragazza curda, militante, riportata nel sito Peace in Kurdistan:
[…]
Quindi rastrello
le nostre basi di coltura,
Mi faccio il segno della croce
e semino,
spargendo semi da qui a lì,
come fanno tutti,
come si fa ovunque,
come si fa da sempre.
[…]
E non posso dire quando
tutta la mia terra
si è appiccicata alle mie suole
e mi impedisce
di muovere i piedi.
Oggi come ieri …
siamo ancora qui.
[…] Al tramonto bevevamo il nostro tè nella tenda.
I contorni degli alberi emergevano dai colori che sbiadivano,
i rossi, i blu e i verdi.
Annusavo il freddo della notte
quando la forma e il colore delle mandrie, delle piante e delle capanne
si incontravano in una sola e unica forma, come un abbraccio,
io mi innalzavo e mi congiungevo con le ombre
prima di raggiungere la mia famiglia attorno al fuoco. Che pace era la nostra…
Ora ci stringiamo e temiamo per le nostre vite..
La pace è finita, le capre e le galline morte con le nostre speranze.
Ora siamo solo determinate
nel difenderci contro questi assassini
che vogliono privarci dei nostri diritti di donne, della nostra libertà e della nostra educazione.
Anna Bruna Gigliotti