Alle scorse elezioni politiche Fratelli d’Italia è stato il primo partito tra gli operai. Questo dato è essenziale, preliminare rispetto a qualsiasi discussione intorno al decreto Lavoro.
Il taglio del cuneo fiscale, con aumento del netto in busta paga fino a fine anno, si spiega in primo luogo così. Meloni risponde a un pezzo importante del proprio elettorato e si pone, automaticamente, in situazione di vantaggio rispetto alle opposizioni sindacali e politiche.
Perché, l’esperienza insegna, non bisogna mai sminuire l’effetto, pur momentaneo, pur ridotto, di un aumento di denaro nelle tasche di chi denaro ne ha poco o sicuramente meno degli altri.
Tra l’altro questo vantaggio competitivo è accresciuto dalle differenze interne al fronte di opposizione. PD e M5S hanno differenze di vedute (e perciò anche di piazze). Cisl da una parte e UIL e Cgil dall’altra condividono la piazza, ma non la piatta-forma.
La ragione è semplice da comprendere. Puntare sul fatto che il taglio del cuneo sia temporaneo contiene infatti un duplice rischio: se il governo riesce a renderlo strutturale, si offre un goal a porta vuota a Meloni; inoltre il taglio, temporaneo ma soprattutto strutturale, incide sulla fiscalità generale e innanzitutto sulla previdenza. Insomma per recuperare sul fronte operaio, i partiti di opposizione e soprattutto i sindacati rischiano di danneggiare le pensioni (come, a rigore, sta già facendo il governo).
Ecco, dunque, in una parte del fronte di opposizione, riemergere il caro vecchio tema del precariato. Anche qui, purtroppo, i fatti hanno la testa dura. L’Italia ha storicamente un grande nemico: il lavoro nero. Solo nelle fantasie da Stato di polizia (che pure ogni tanto qualcuno rispolvera) si può arginare il fenomeno attraverso i soli controlli e le solo ispezioni. Occorre invece incentivare l’uscita dalla zona nera e grigia di quei lavori sommersi.
In Italia ci sono state due stagioni di riforme del mercato del lavoro. La prima (Treu-Biagi) ha puntato sulla flessibilità in entrata, creando forme di contratto nuove e diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Quella stagione, fine Novanta inizio Duemila, rispondeva anche a una trasformazione radicale della economia italiana e mondiale, alla nascita di nuove figure professionali, difficili se non impossibili da inquadrare come operai o impiegati.
La seconda stagione, che risale al decennio passato e ha nel Jobs Act il proprio centro, ha invece capovolto la prospettiva puntando sulla flessibilità in uscita. Puntare a un unico contratto a tempo indeterminato, questa era la logica, ma con tutele crescenti nel corso del tempo. In particolare rispetto all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (sulla cui storia/genesi sarebbe opportuno un approfondimento a beneficio di tutti).
Al di là dei dibattiti, roventi, che hanno caratterizzato entrambe le stagioni, per correttezza bisogna evitare confusioni e osservare le tendenze attuali frutto di queste riforme. E soprattutto riconoscere un dato: entrambe quelle stagioni hanno portato (è sufficiente consultare i dati) a un aumento della occupazione. Se si esclude il bagno di sangue dovuto alla pandemia, gli ultimi anni, in particolare gli ultimi due anni, parlano ancora di un aumento della occupazione, e soprattutto dei contratti a tempo indeterminato. Anche rispetto alle altre economie europee. Il che, per tornare al nemico numero uno dell’Italia, vuol dire in primo luogo emersione di lavoro nero, grigio, sommerso.
Piuttosto bisognerebbe che qualcuno, le opposizioni politiche e sindacali in particolare, provasse a introdurre temi dimenticati. Ad esempio quale politica industriale è possibile, se è ancora possibile, mettere in atto. E come, nuovamente se possibile, fare del pubblico una leva per riattivare domanda.
Sui voucher giusto una battuta. Le campagne elettorali, da Trieste in giù, sono piene della retorica nauseabonda dell’Italia che “potrebbe vivere di solo turismo”. Salvo scoprire, ogni volta, che assieme alla agricoltura, il turismo è il settore strutturalmente meno adatto a fornire lavoro stabile. Il problema, nuovamente, non è rappresentato dai voucher (di nuovo: alternativa al lavoro nero), ma dalla sciocca promessa di avere una Italia di soli vigneti e lidi.
Alessandro Porcelluzzi