Gio. Nov 21st, 2024

Come un lampo che illumina la notte: abbiamo scoperto che l’Italia è in ritardo, in affanno, rischia la bocciatura riguardo il PNRR. È una epifania, molto più che una notizia. Perché, da mesi, anzi oramai da anni, il PNRR, ancora prima di divenire realtà, era invocato come la panacea per tutti i mali italici. L’occasione da non perdere, la locomotiva “come una cosa viva lanciata bomba contro” la pigrizia, contro la mestizia. E invece siamo in ritardo, le riforme previste non sono nemmeno all’orizzonte o, quando ci sono, viaggiano in senso esattamente contrario rispetto a quanto auspicato dalla Commissione europea. Vanno in fumo, così, almeno tre stagioni della politica italiana. Il primo, più facile esercizio, è il duello tra chi ha lasciato e chi gestisce ora,  tra (i membri del governo) Draghi e (i membri del governo) Meloni. Mentre Gentiloni, che ci rappresenta in Commissione europea, tenta di gettare acqua sul fuoco, altri piccoli incendi divampano nell’arena nazionale. Ad esempio la riforma del codice degli appalti (a cui Salvini tiene a dare il nome, contento lui), che solleva perplessità (per usare un eufemismo) del presidente dell’ANAC, cioè esattamente della autorità indipendente che deve vigilare sul tema nel Paese delle molte mafie e degli imprenditori troppo amici di Sindaci e assessori. La soluzione al problema principale, ovvero il ritardo estremo sulla progettazione degli interventi del PNRR, al momento sembra poter essere una ricombinazione tra PNRR, fondo di coesione e fondi strutturali. Un gioco di prestigio che sposta nel futuro la resa dei conti (letteralmente) ma lascia inalterate le questioni cruciali. Una di queste merita attenzione. Le amministrazioni pubbliche italiane non hanno, al proprio interno, professionalità in grado di seguire l’iter progettuale. Questo tema meriterebbe attenzione, il condizionale è d’obbligo. Perché in realtà nessuno lo affronterà davvero. Prenderlo di petto significa mettere spalle al muro la politica italiana degli ultimi decenni. Forse tutta la politica dalla Repubblica a oggi. Perché per tutta la Prima Repubblica le amministrazioni pubbliche, anche e soprattutto locali, hanno ingrossato le proprie fila a dismisura. Utilizzando l’impiego pubblico come strumento di consenso e arma di cooptazione. Soprattutto gonfiando i fabbisogni di profili bassi (titoli di studi minimi, minima o nessuna esperienza). Questo processo ha creato una macchina pubblica elefantiaca. La Seconda Repubblica ha proposto un rimedio altrettanto letale: bloccare le assunzioni (meglio: con meccanismi di sostituzione, delle stesse funzioni, a rapporti numerici ridotti). E così, mentre progressivamente gli assunti della Prima Repubblica divenivano pensionati, in assenza di assunzioni, le macchine della burocrazia si sono trovate con numeri ridotti, ma competenze e professionalità tendenti al basso. Una magnifica macchina da guerra al contrario, che oggi rincorre funzionari/consulenti brandendo contratti a tempo determinato. E sorvoliamo sul dubbio, lecito tuttavia, che chi seleziona o dovrebbe selezionare questi neoassunti sia, in primo luogo, competente rispetto al tema e, in secondo luogo, scevro dal meccanismo (la Prima Repubblica non passa mai) della cooptazione come criterio essenziale di preferenza. Ma tant’è. L’Italia, a questo riguardo, si presenta come un esempio, un emblema, ma al contrario, capovolto, della economia dell’integrazione (che è alla base della costruzione europea). Ovvero: quel processo virtuoso, che dovrebbe logicamente portare dalla caduta delle barriere alla concorrenza, attraverso la fine delle guerre commerciali, giù giù fino alla sconfitta delle inefficienze e alla conversione, tramite progettualità e riforme, dei territori sconfitti in economie di nuovo conio. Ebbene: in Italia, territorio generalmente sconfitto, solo con gradazioni diverse tra regioni e regioni e all’interno delle regioni, nessuno è in grado di riconvertire nulla. Si finge, si trucca, ci si arrabatta. Si affidano comunque progetti e risorse a coloro che non sono in grado gestirli. Poi, se possibile, si assume qualcun altro, non necessariamente più preparato, ma sempre fedele. E se si può, qualcuno con parcella arriva pronto a rimediare ai danni. Qualcuno si costerna, cantava il poeta, qualcun altro si indigna. Poi si “getta la spugna con gran dignità.”

Alessandro Porcelluzzi

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