Il mistero della vita
penetra nel mistero della morte,
il giorno chiassoso
tace dinanzi al silenzio delle stelle.
Questi versi sono di Rabindranath Tagore ( Calcutta 7 maggio 1861- Jorasanko 7 agosto 1941), poeta, musicista, pittore, filosofo, scrittore bengalese, primo non occidentale a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1913, riconosciutogli per la profonda sensibilità, la freschezza e la bellezza dei versi.
Appartenente ad una facoltosa famiglia bengalese, aveva ricevuto un’educazione improntata alle tradizioni indiane, ma aperta alla cultura occidentale. Egli scriveva le sue opere in bengali, ma poi le traduceva egli stesso in inglese.
Le sue poesie, scritte nella lingua più melodiosa del subcontinente indiano, erano composte per essere cantate più che recitate. Il poeta fece molti viaggi in Europa, in Cina, in Giappone, negli Usa e non solo per studio, ma anche per raccogliere fondi per l’università di Shanti Nikan (Asilo di Pace), da lui fondata e dove all’insegnamento delle discipline, che veniva svolto all’aperto, in una interazione continua e viva tra docente e allievo, si affiancava l’esercizio dell’agricoltura, del lavoro manuale e dell’esercizio fisico.
Il poeta sa infondere nei suoi versi un misticismo panteistico. Ci narra, anzi ci canta di mistero e vita, di terra e cielo. Un connubio inscindibile e potente che ci penetra nel profondo. La dolcezza del suo canto ci affascina e ci illumina di mistero:
La morte non è
una luce che si spegne.
È mettere fuori la lampada
perché è arrivata l’alba.
Ho voluto aprire questo mio articolo con i versi di questo grande Poeta, per abbracciare il nostro amabile direttore Antimo Pappadia, in un momento doloroso della sua vita.
“Il giorno è finito,
l’ombra scende
sulla terra.
E’ tempo di riempire
La mia brocca al ruscello”
Recita il poeta in una sua famosa poesia: la gestualità nel compiere azioni quotidiane dà il ritmo al vivere. Ombra e luce scandiscono i nostri giorni. Ci sostengono e confortano, ci insegnano e rimetterci in cammino con la consapevolezza che nessuno mai ci abbandona, ma, per dirla con i versi di un altro grande poeta, il portoghese Fernando Pessoa, una delle voci più rappresentative della poetica del XX secolo :
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
O, come recitano i versi struggenti di Herry Scott Holland, teologo e scrittore britannico (1847/1918):
La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.[…]
Voglio terminare questo mio articolo che, attraverso le voci di grandissimi poeti, ha voluto omaggiare un amico dalla grande sensibilità, per fargli sentire la mia vicinanza con un abbraccio poetico: un canto navajo che ci fa sentire in intima comunione con il creato:
Non restare a piangere sulla mia tomba,
non sono lì, non dormo.
Sono mille venti che soffiano,
sono la scintilla diamante sulla neve,
sono la luce del sole sul grano maturo.
Sono la pioggerellina d’autunno
quando ti svegli nella quiete del mattino…
Sono le stelle che brillano la notte.
Non restare a piangere sulla mia tomba,
non sono lì, non dormo.
Anna Bruna Gigliotti