Siamo sul “Ponte Di Giverny”, Monet si ferma e mi fa passare, vuole che ai miei occhi si aprano senza ostacoli i colori del suo giardino. In quel particolare momento, non so se mi affascinavano di più le ninfee e i salici che su di esse spingevano i loro rami ricadenti o questo vecchio signore dalla barba bianca con una energia non più connaturata all’età.
Maestro, dalle caricature che faceva da ragazzo alle “ninfee” del suo ultimo periodo, sono passati sessanta anni, se la sente di fare un bilancio?
I bilanci come lei sa, sono sempre molto difficili perché a volte tralasciamo quello che poi, è stato veramente importante e a questo proposito, sa cosa le dico? Nessuno ha mai considerato se non come fatto puramente biografico le caricature, come un inizio della mia arte che tutti invece collegano al mio incontro con Boudin che mi spinse a dipingere in riva al fiume. Certamente Boudin ha avuto la sua importanza ma vede, per fare caricature, bisogna guardare all’essenza, al particolare nascosto che rende personalità al soggetto ritratto. Il mio amore per l’essenza si è poi sviluppato ed evoluto nel mio modo di vedere.
Può chiarirmi il concetto?
Vedere non vuol dire guardare e guardare vuol dire vedere con intensità. Quando il nostro sguardo si posa sulle cose è accompagnato sempre dalle luci e dalle ombre che cambiano la fisicità stessa di ciò che vediamo, questo accade sempre e comunque, ma si esalta all’aria aperta dove il cielo con il sole, le nuvole, la nebbia… trasformano ciò che si ha davanti anche per effetto dell’emozione creata dalle varie atmosfere.
E allora?
Allora! allora divento tutt’uno con la natura e non posso non cercare dipingendo, la totale immersione in essa.
Pensa che la sua invenzione delle ombre colorate sia nata da tutto questo? Bisogna dire che lei è l’unico impressionista ad adoperarle
Devo chiarire una volta per tutte il concetto di impressionismo. Quando nel 1874 un gruppo di pittori si riunì e fece la sua prima mostra nello studio del fotografo Nadar, fu a causa del titolo di un mio quadro “Impression Soleil levant”, che venimmo definiti Impressionisti, però eravamo tutti diversi o perlomeno, l’intento comune era di liberare la pittura dai vecchi schemi, ma ciascuno di noi vedeva in modo diverso il mondo circostante. Io lo vedevo immerso nella luce dell’attimo. Volevo che il mattino sulla tela fosse mattino, e che il pomeriggio fosse pomeriggio e così l’alba, la sera, l’aurora.. e come potevo ottenere questi risultati se non con le ombre colorate?
Con questo vuol dire di essere l’unico vero impressionista?
Se la mette così… La descrizione del paesaggio con pennellate brevi e vigorose senza per questo essere un pittore di paesaggio, il dipingere all’aria aperta, l’assenza del colore nero, la passione per l’acqua con la sua mutevolezza, a volte l’uso della spatola e poi, della macchina fotografica che impose un altro “taglio” alla composizione del quadro, aiutati in tutto questo dall’invenzione dei colori ad olio in tubetto e il libero uso del colore… Questo ed altro, fecero di noi gli Impressionisti. Nascemmo tutti quel giorno e insieme siamo passati alla storia, ma poi ciascuno trovò una nuova identità. Pensi a Van Gogh che aprì le porte all’espressionismo o a Cezanne senza il quale probabilmente non ci sarebbe stato il cubismo
E di lei non mi dice nulla? Con le sue “ Ninfee” ha precorso i tempi dell’informale
Chiariamo una cosa fondamentale. L’informale non vuole dire senza forma. Informale è quando la forma si apre e si regala a tutta l’immagine. Il soggetto o l’oggetto, lo chiami come vuole, non sparisce alla vista, ma viene moltiplicato nella sua essenza dal colore. Socchiudendo gli occhi e allontanandosi dal quadro, non potremo non vedere la rappresentazione di un qualcosa. All’inizio come con Kandinskij, che diventerà il primo astrattista della storia dell’arte, si potrà provare una sorta di disagio, il sentire da parte del pittore un’arroganza nel voler stravolgere la visione delle cose, la mancanza di rispetto per la sensibilità di chi guarda, ma poi mi creda, soltanto entrando nella tela e facendo parte di questa potrà comprendere il meraviglioso del colore.
Ed è per questo che allora ha passato trent’anni a dipingere le ninfee?
Non immagina quanto sia stato estenuante eppure seducente potersi immergere nello spazio infinito che era invece acqua e raccontare il cielo nell’acqua tra le ninfee come colori e i colori come ninfee. Fare questo era diventato la mia ossessione, volevo cose impossibili“ [dipingere dell’acqua con erba che ondeggia sul fondo]”
E quando i suoi occhi si ammalarono?
Fu terribile, dipinsi e distrussi un numero di tele che non ricordo nemmeno.
I colori mi tradivano, le sfumature erano inesistenti, pensai di non essere più capace di dipingere, poi un medico e un altro ancora e ancora, mi dissero che forse avevo le cateratte, che dovevo operarmi, ma prima, era tassativo, i miei occhi dovevano riposare. Non sto qui a narrarle tutte le difficoltà, sappia solo che siccome sono un caparbio, mi feci costruire una stanza a vetri nella quale potei dipingere le mie grandi tele delle ninfee. Non più alla luce del sole, aiutandomi con il nome del colore sul tubetto e provando e riprovando sull’esperienza dei “Covoni” dei “Pioppi”, della “Cattedrale di Rouen” Ho adattato la pittura alla mia vista, che peraltro ebbe dei notevoli miglioramenti.
Maestro, è difficile lasciarla, come possiamo concludere questa intervista?
Vorrei dire ai numerosi pittori che oggi si cimentano con la tela ed i pennelli, di cercare una loro verità, quale che sia, e di non fermarsi alla bellezza dell’immagine, all’unione ben riuscita di due colori. Solo se saranno capaci di raccontare un’emozione che nasce da una atmosfera, potranno dire di avere catturato non solo lo sguardo, ma anche la mente e l’anima dello spettatore.
Quegli occhi che avevano visto la luce il 14 novembre del 1840 a Parigi, quegli occhi che sapevano cogliere l’attimo del tempo senza mia arrendersi, si chiusero a Giverny il 6 dicembre del 1926.
Tratto dal libro “Parole oltre il tempo” di Nadia Farina Edito da MrEditori