Le ricette del giorno dopo, in politica, sono illusorie, affrettate, anche vagamente stucchevoli. Una antica pratica, divenuta da tempo luogo comune, come l’analisi della sconfitta, si trasforma oggi in una farsa. Tutti fingono di sapere, e di aver saputo sin dall’inizio, quale soluzione offrire alla crisi del mondo progressista. “Ah, fossi io segretario…”.
Eppure, a osservare con attenzione i dati di queste elezioni politiche, la fretta sembra la peggiore dei consiglieri. Bisogna, come sempre in politica, cominciare da una fotografia corretta degli eventi.
Il centrodestra ha vinto le elezioni e ha una maggioranza chiara nelle aule del nuovo (ridotto nei numeri, a causa della recente riforma) Parlamento. A trainare la coalizione è Fratelli d’Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni. Partito che è, di fatto, l’unico partito vincitore: passa dal 4 al 26% nel giro di quattro anni. Nonostante l’aumento dell’astensione, e a danno, quasi esclusivamente dei propri alleati. Forza Italia e la Lega, entrambi decisamente sotto il 10% (al Nord la Lega in particolare, è stata cannibalizzata dal partito della Meloni). Il dato del centrodestra rimane comunque significativo: una coalizione che, pur passando lo scettro, il primato, da un partito all’altro, da un leader all’altro, ha sfruttato al meglio il meccanismo (cervellotico e assai discutibile e discusso) della legge elettorale per massimizzare il proprio risultato.
Assolutamente opposta la situazione del fronte avverso. Sia il PD sia, in misura assai superiore, il M5S perdono milioni di voti. Milioni di voti scomparsi, inabissati, sprofondati nella astensione, che a ogni elezione raggiunge nuovi picchi. Le aspettative pre-elezioni influenzano l’interpretazione differente. Il M5S che dimezza (più che dimezza) le proprie percentuali rispetto al 2018, e perde ancora più voti, è letto (rispetto alle catastrofi annunciate) come “salvato da Conte”. Anche se è vero, chiarissimo, cristallino, un ottimo risultato nelle regioni meridionali (in Puglia, in Campania, in Calabria in modo particolare) del Movimento a guida Conte. All’opposto il PD, su cui lo stesso segretario Letta aveva creato aspettative ottime o comunque rosee, col 19% (stessa percentuale ottenuta a suo tempo da Renzi, ma con voti assoluti superiori) appare come il principale sconfitto di questa tornata. Letta ha dichiarato che andrà al congresso da dimissionario e senza ricandidarsi. E già ci sono alcune disponibilità, alcune proposte di candidature e/o autocandidature. De Micheli, Schlein, Ricci, Bonaccini, Provenzano, Decaro, tra i nomi, al momento, più quotati. Ma c’è chi parla pure di rifondazione del partito o di scioglimento dello stesso. Scioglimento per tornare alle componenti che lo fondarono (dunque un partito simil DS e un partito simil Margherita). O ancora scioglimento per avere due tronconi: uno che si allea e/o fonde con il M5S, l’altro che si allea e/o fonde con il Terzo polo. Il Terzo polo, il prodotto di Calenda e Renzi, ha ottenuto, a detta dello stesso Calenda, un risultato inferiore alle aspettative e tuttavia si candida ad attirare e ad aggregare forze in fuga dall’una e dall’altra parte (come già ipotizzava sino al 25 Settembre). Il grande mantra della aggregazione, della massa critica, delle alleanze rischia però di oscurare un tratto fondamentale. Chi sostiene che il centrosinistra avrebbe avuto maggiori chance alleandosi con il M5S non comprende, o finge di non comprendere, che in quel caso una importante (ulteriore) fetta di elettori del Movimento l’avrebbe abbandonato. E probabilmente anche una quota di elettori PD avrebbe votato altrove. Troppo diversi, come appare dalle prime analisi di flusso, gli elettorati di riferimento. Vale lo stesso ragionamento rispetto alla alleanza sfumata con Calenda: il Terzo polo, che come detto non sfonda, ma ottiene una buona prima performance, difficilmente avrebbe avuto lo stesso consenso in alleanza con il PD, con cui condivide lo stesso perimetro sociale. Insomma: in un caso (PD con M5S) troppo diversi per sommare tra loro elettori senza perderne; nel secondo caso (PD con Terzo polo) troppo simili per poter stare assieme, poiché solo la distinzione ha creato domanda e concorrenza. Dunque invece di discutere, dal giorno dopo le elezioni, della presunta occasione persa delle alleanze, bisognerebbe prendersi il tempo per meditare. Perché sul lato dell’offerta politica, in Italia, si è provato di tutto. Pare invece che dalla crisi della rappresentanza, di cui è segnale inequivocabile l’astensione crescente, la sinistra sia uscita con le ossa rotte. Il punto non è cambiare, per l’ennesima volta, l’offerta: non è una questione di simboli, nomi, coalizioni, alleanze. Il punto è che non c’è più una domanda di sinistra. La crisi della rappresentanza, qualcuno ha detto: della democrazia, ha fatto sprofondare nella disillusione, nel disinteresse, strati di popolazione. Ha colpito in modo disuguale: la destra, non solo in Italia, ha rimodellato e ridisegnato il proprio perimetro e il proprio insediamento sociale in modo evidentemente più efficace. Ha risposto ad aspettative ed è stata ricambiata da consensi stabili o addirittura crescenti. Non così per la sinistra: non c’è più una domanda di sinistra, perché probabilmente la sinistra non ha più, da tempo, domande e risposte che mordano la realtà. La prima domanda, che dovrebbe diventare un assillo, un pungolo, lo sprone più efficace, è: come far riemergere dalle nebbie della abulia, dalla palude della disaffezione, dell’astensione quei milioni di Italiani che, anche e soprattutto negli strati popolari, considerano il proprio voto, il proprio contributo irrilevanti per le decisioni del Paese.
Alessandro Porcelluzzi