La campagna elettorale a cui stiamo assistendo è sicuramente strana, anomala. Ciò in parte è dovuto al periodo dell’anno, una campagna di fine estate, con liste presentate a Ferragosto. Ma ci sono ragioni più serie. Queste elezioni si terranno con una legge elettorale che tutti, compresi coloro che l’avevano scritta e voluta a suo tempo, sostenevano di voler cambiare. E che invece è rimasta immutata: una legge che toglie agli elettori la possibilità di esprimersi, con liste bloccate al proporzionale (che conta assai di più) collegate a candidati all’uninominale (che invece numericamente ha impatto assai minore). Una legge, come d’altro canto quella che l’ha preceduta, rispetto alla quale sono stati presentati ricorsi corposi e, di nuovo come la precedente, rispetto alla quale ci sono rilievi costituzionali di cui nessuno vuole tenere conto. La questione peggiora se si ricorda che il taglio del numero dei parlamentari ha ulteriormente allargato il divario tra elettori ed eletti. Ma tant’è.
Già solo questo basterebbe a fare tremare le vene dei polsi a qualsiasi politico con orecchie attente a ciò che avviene nel Paese. Ma invece la ruota continua a girare, il motore imballato della politica italiana finge di ignorare quanto sta accadendo. Salvo qualche lacrima di scena, sempre pronta, sul fenomeno dell’astensione crescente: davvero un mistero questi Italiani che non si recano più alle urne!
Ciò che appare scontato è la crescita esponenziale di Fratelli d’Italia. Qui, stavolta sul serio, siamo di fronte a un mistero. Perché la vittoria, che sembra oramai scontata, del centrodestra sarà principalmente frutto dei consensi che Fratelli d’Italia e la leader Giorgia Meloni raccolgono in tutte le parti del Paese. Un centrodestra a trazione “meloniana”, come lo descrivono gli osservatori e commentatori in modo serioso. È un mistero, perché l’unico tratto distintivo per cui Meloni sarà premiata è, ci sembra di capire, essere stata all’opposizione per tutta la legislatura che abbiamo oramai alle spalle. Dunque gli Italiani, che secondo tutti i sondaggi erano entusiasti per Conte Presidente del Consiglio, e ancora più entusiasti (quasi in estasi) per Draghi Presidente del Consiglio, voteranno in maggioranza per l’oppositrice di entrambi, o per uno degli alleati della oppositrice, portandola comunque, salvo sorprese a Palazzo Chigi.
Ciò non sarebbe affatto strano se, su alcuni o quasi tutti i punti qualificanti di un progetto politico e di governo, Meloni e Fratelli d’Italia fossero agli antipodi di Draghi. Ma pare di capire che sulla collocazione internazionale, sulla politica estera, sulla Nato, sulle principali ricette per l’economia e il lavoro, sul rapporto con l’Unione europea (e via discorrendo) Meloni non intenda discostarsi più di tanto dal suo immediato predecessore Draghi. Quest’ultimo l’ha già detto, in modo solo più elegante o sibillino, a Rimini al Meeting di Comunione e Liberazione.
Dovremmo dunque chiederci come mai in Italia, negli ultimi anni o lustri, l’elettorato continui a premiare chi sta all’opposizione solo perché sta all’opposizione (fenomeno che la volta scorsa ha per esempio premiato il M5S e in misura diversa la Lega). Senza, tra l’altro, che ciò si traduca in una democrazia dell’alternanza perché, al contrario, i blocchi di coalizione tendono a sciogliersi e a ricomporsi in modo sempre diverso e mutevole.
E se nella coalizione di centrodestra attuale sembra si possa prevedere una doppia flessione (più o meno consistente a seconda del punto di riferimento preso in esame: le scorse Politiche, come sarebbe più corretto, le Europee o i diversi turni di amministrative) sia di Forza Italia sia della Lega, che drenano voti verso Fratelli d’Italia, un fenomeno diverso si manifesta nel fronte progressista. In primo luogo alla fine è saltata l’alleanza che sembrava siglata tra Calenda e il PD.
Calenda ha lasciato Letta, preferendo Renzi, perché non intendeva essere alleato di Fratoianni, Di Maio e Bonelli. Questione politica o questione di sondaggi, di fatto Letta ha dovuto sterzare e cambiare approccio alla campagna. Perché la continuità con l’agenda Draghi, di cui anche Draghi nega l’esistenza, è rimasta appannaggio di Calenda/Renzi. I quali perseguono, in modo esplicito, una situazione post-elezioni di stallo, in modo da chiamare a Palazzo Chigi nuovamente Draghi. Insomma vorrebbero riavvolgere il nastro e tornare alla situazione pre-crisi di governo: l’unica differenza sarebbe, almeno nelle speranze, un drappello più consistente di parlamentari di scuola renzian-calendiana.
Persa la continuità con Draghi, al PD è rimasto il tema classico: la paura delle destre. La grafica scelta da Letta lo racconta assai bene: rosso o nero, o noi o loro. Molto facile ed efficace sul piano della comunicazione e con un vantaggio in più. “O noi o loro” fa sparire tutti gli altri attori. La polarizzazione, anche se in base ai dati attuali favorisce Meloni, è anche di grande aiuto per il PD.
Perché scompaiono i suoi alleati in coalizione, Fratoianni/Bonelli, Bonino, Di Maio (e questo, se non dovessero raggiungere il 3%, per la legge elettorale, significa un regalo al PD stesso). E scompaiono come alternative credibili sia il Terzo polo di Renzi/Calenda, sia il M5S.
Quest’ultimo, con la crisi di governo e le elezioni anticipate, si è affidato per le liste (e soprattutto i capilista) mani e piedi a Conte. Il M5S, in questa nuova fase, sembra aver trovato la propria collocazione a sinistra del PD. E infatti Conte sostiene che un progressista non possa non votare M5S: i sondaggi sembrano dargli ragione, il M5S sembra collocarsi dopo molti mesi sopra il 10%, ed è possibile che il M5S raccolga meglio di altri contenitori (la lista promossa, in coalizione col PD, da Sinistra italiana e Verdi, da un lato, e Unione Popolare, promossa da Rifondazione comunista, Potere al Popolo e De Magistris, dall’altro) il consenso di quel bacino potenziale, che la scorsa volta tra LeU e Potere al popolo raccolse poco meno del 5%, aggiungendolo a quello dei fedelissimi.
Il tema vero però, ovvero da dove e come far ripartire una democrazia per tanti versi in crisi, è completamente assente da questa campagna elettorale. Un convitato di pietra, che però prima o poi presenterà il conto. Se il divario tra chi governa e chi è governato si allarga, rischia di diventare incolmabile. Servono ponti, prima che si trasformi in abisso.
Alessandro Porcelluzzi