Il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella suo poema epico-mitologico “Le Metamorfosi” racconta la storia di Narciso, fanciullo bellissimo, ma a tal punto orgoglioso da non riuscire a intrattenere rapporti con nessuno, benché chiunque venga a contatto con lui ne sia attratto per il suo incantevole aspetto. Per punizione divina Narciso si innamora della propria immagine che vede un giorno riflessa in uno stagno. Così trascorre la sua breve vita a contemplarsi, finché, comprendendo di non poter raggiungere mai l’oggetto del suo amore, si lascia morire di stenti. Secondo un’altra versione del mito, altrettanto drammatica, Narciso annega in uno specchio d’acqua, nel tentativo di afferrare la sua immagine. Il mito di Narciso, però, deve la sua grande popolarità a Sigmund Freud, che definì per la prima volta come “narcisista” colui che è troppo concentrato su di sé a scapito degli altri e, per questo, incapace di provare amore.
Lo psichiatra e accademico Paolo Migone, , afferma che la caratteristica principale (del narcisismo n.d.r ) è proprio l’oscillazione continua dell’autostima. Il narcisista si sente talvolta una nullità, talvolta un essere eccezionale. Pertanto chi è affetto da tale disturbo della personalità appare forte e inattaccabile, irritante ed egoista, ma in realtà è spesso fragile. Tende a vivere malissimo il minimo difetto e a percepire drammaticamente le situazioni in cui la sua immagine non è al meglio. Inoltre, non avendo nessuna sensibilità per gli altri, è incapace di amare. In sostanza, se è vero che il narcisista è spesso una persona insopportabile, è tuttavia anche un individuo che sta male: prova un gran senso di vuoto, che lo spinge verso comportamenti negativi e, in casi limite, autolesionistici. Insomma, proprio come il Narciso del mito.
Il fenomeno del narcisismo, nell’era del web è più che mai supportato e amplificato dalla tecnologia. Infatti i Narcisi del terzo millennio hanno a disposizione un nuovo specchio: il selfie, che però, non sempre risulta essere un’innocua espressione di autocompiacimento della propria immagine. Le cronache degli ultimi due anni, infatti, riportano più volte la notizia della morte di persone impegnate a scattarsi un selfie in situazioni rischiose.
La moda dei “Daredevil selfie” è scoppiata tra i giovani, da quando il free climber russo Alexander Remnevl Diffuse i suoi autoscatti che lo ritraggono in cima ai grattacieli più alti del mondo. Da allora le persone che sono morte a causa di un selfie estremo, sono circa una ogni 12 giorni, oltre alle invalidità e/o disabilità irreversibili acquisite in seguito a questa pratica idiota. Si tratta di casi in cui il semplice esibizionismo legato all’autoscatto è aggravato da un atteggiamento narcisistico con tendenze psicotiche. C’è in proposito anche uno studio condotto dall’Università dell’Ohio State, basato su un campione di 800 persone tra i 18 e i 40 anni, tutte fanatiche di selfie, come appare dai loro profili social. In base alle risposte date a questionari relativi a comportamenti asociali, tali persone hanno rivelato in maniera netta i tratti di comportamento narcisistico di livello psicotico.
Molto più numerosi sono, purtroppo, i dati relativi a incidenti mortali causati dall’aver perso il controllo dell’automobile in seguito ad un autoscatto. In questo caso non si parla di selfie estremi, anche se hanno condotto ad estreme conseguenze, a causa della leggerezza comportamentale dei soggetti in questione. Con ciò non si vuole demonizzare la moda del selfie, che in sé è qualcosa di simpatico. Il problema, come sempre, non è il mezzo, ma l’uso improprio che se ne fa, spesso conseguenza di un basso livello di autocoscienza, di un’apatia esistenziale, che allontana sempre più da se stessi per navigare nell’immenso e anarchico mare della condivisione selvaggia di tutto ciò che accade.
Di per sé la consuetudine di immortalare ogni dettaglio della propria vita, una vita spesso inconcludente, ha qualcosa di abnorme e patologico rispetto alla riservatezza che il buon senso e la decenza richiedono agli atti privati della propria esistenza. Se poi l’ossessione si manifesta anche nei confronti degli altri, che siano conosciuti o meno, in buona salute o in fin di vita, purché ci consentano di dire “Io c’ero”, come muti, insulsi e vuoti spettatori, allora il fenomeno è molto grave: una sconfortante forma di narcisismo collettivo, di incapacità di provare sentimenti positivi, i cui effetti estremi sono ritrarre “la bella morte” propria o altrui.
Ludovica Ascione