Merito e meritocrazia sono lemmi da tempo al centro del vocabolario della politica e del dibattito pubblico. Concetti che hanno scavato a fondo nella teoria e nella prassi di una intera parte di mondo. E che è forse il caso di continuare a indagare per coglierne pregi e difetti, potenzialità e limiti. Sul merito ha scritto un interessante testo Michael Sandel, docente di filosofia ad Harvard e tra i massimi esponenti del comunitarismo. Il titolo, assai significativo, è “La tirannia del merito”. Il saggio di Sandel è un’ottima guida per orientarsi nell’analisi del merito e nella storia della fortuna di questa categoria e a quel saggio ci si richiama qui (e ad esso si rimanda per ulteriori eventuali approfondimenti). Quando si discute di concetti che appartengono alla filosofia politica, torna sempre utile porsi alcuni interrogativi preliminari. Dobbiamo ad esempio chiederci che tipo di società immaginiamo, quali valori siano al centro di questa società, cosa possano (e debbano) fare i cittadini per contribuire alla costruzione di questa società. La società che abbiamo dinnanzi a noi non è l’unica, e nemmeno la prima, che sia stata sperimentata nel corso dei secoli. Possiamo immaginare, oggi, una società che dichiari esplicitamente di essere fondata sul privilegio o sul favoritismo o, ancora, sulla minaccia? Con tutta evidenza ciò non è possibile, nemmeno immaginabile. E dunque una analisi critica del merito non conduce in alcun modo a difendere, in alternativa, il privilegio, il favoritismo, la minaccia come strumenti di promozione individuali o collettivi.
La narrazione del merito si fonda sull’immagine, calco sportivo-agonistico, della gara. Se siamo in posizione di equità ai nastri di partenza, se al via siamo in condizione di parità, allora la vittoria sarà frutto del merito, un successo da premiare. Qui sorge immediatamente il primo dei problemi, o almeno il primo dei dubbi. Ovvero se sia possibile, e quanto sia realizzato davvero di volta in volta, colmare le differenze rispetto al “nastro di partenza”. Questo è però solo il primo dei problemi. Perché, pur ammettendo una efficace e costante opera di riduzione degli ingiusti vantaggi/svantaggi, vien da chiedersi quale merito vi sia davvero nel giungere primi, nel risultare vincitori. I doni, i talenti sono infatti legati alla fortuna e/o alla natura, e in tal caso non è chiaro quale sia il merito nell’aver beneficiato di doti innate. Inoltre il valore di un talento, dunque il suo essere meritevole, muta da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra. Ciò che conduce al successo, il talento premiato come merito, in Italia oggi non è ciò che veniva premiato, sempre in Italia un secolo fa o ciò che conduce a eguale successo oggi nel continente africano. Infine il successo, la vittoria premiata e attribuita al talento, tende ad essere considerata come individuale. Ma ciò trascura una serie di sostegni, dimenticati: l’individuo che trionfa in questa corsa è in qualche modo debitore a una famiglia, a una scuola, alle leggi di quel Paese, ecc. ecc.
Ma queste riflessioni, nel discorso ordinario, tendono a essere oscurate.
Date condizioni di partenza uguali, ci racconta il sostenitore della società del merito, se ottengo successo, è grazie ai miei sforzi. Dunque: ho meritato il successo. Il merito premia il successo che giustifica il criterio del merito: un circolo di reciproca legittimazione fino all’infinito.
Vale naturalmente, in questa logica, anche il contrario: date condizioni di partenza uguali, l’insuccesso è tutto a carico di chi non lo ottiene. È responsabilità, meglio: colpa, di chi non ottiene successo, aver fallito nella gara lanciata in condizioni di equità. La doppia coppia merito-successo e insuccesso-colpa ha origini antichissime. Tornando a Sandel e al suo “La tirannia del merito”, scopriamo la genealogia di questa visione del mondo. Dal libro di Giobbe (fortemente anti-meritocratico: Giobbe si interroga sulle proprie disgrazie, ma la risposta di Dio allontana Giobbe e il lettore dal rapporto causa-effetto tra Male e colpa) alla polemica di Agostino contro Pelagio (possiamo riscattarci o no dal peccato originale?). Fino a Lutero e Calvino. Ed è proprio con la Riforma protestante, soprattutto nella versione di Giovanni Calvino, che la questione del merito abbandona l’ambito teologico (come, e se sia possibile, meritare la Salvezza) e si riversa invece nella vita professionale e lavorativa (il successo nel lavoro diviene segno e poi fonte della predestinazione alla Grazia). Un legame, quello tra la nostra economia e la svolta imposta dalla Riforma, che fu già al centro della analisi di Weber.
La narrazione fondata sul merito si lega, da quasi mezzo secolo, a una diversa e più generale narrazione: ovvero quella lega l’economia di scuola neoliberale e la cosiddetta società della conoscenza Economia e conoscenza sono accomunate dallo stesso humus teorico: il successo premia coloro che sviluppano, continuamente, per l’intero arco della propria esistenza, i propri talenti. L’unico strumento per «vincere la corsa» è sviluppare i propri talenti e il successo si misura in termini economici, dunque equivale a ottenere maggior reddito. Il reddito è l’unico metro di valutazione. L’insuccesso è frutto della scarsa applicazione, della pigrizia, di scelte sbagliate: è una colpa, una colpa individuale.
Raccogliendo quanto descritto in un’unica catena di ragionamento, lo schema suona più o meno così: se il successo è misurato attraverso il reddito, e il reddito è legato allo sviluppo dei talenti, e, ancora, lo sviluppo dei talenti, nella società/economia della conoscenza, è legato al titolo di studi, allora tutti dovrebbero mirare a titolo di studi elevato.
Quale è la situazione reale?
Solo il 20.1% della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni possiede una laurea. La media UE è più alta, 32,8%, ma comunque rappresenta una minoranza della popolazione. Dunque o i 4/5 (in Italia) e i 2/3 (in UE) della popolazione sono rappresentanti da individui non razionali, che non rispondono in modo logico agli input proposti, o la narrazione è fallace.
Perché dentro questa narrazione, oltre a una condanna senza appello degli sconfitti nella gara, ci sono altri fattori (che probabilmente meriterebbero ben altro spazio): la svalutazione del lavoro manuale; l’assenza di riconoscimenti diversi dalla quantità di reddito e ricchezza; schemi di gara riprodotti a ogni livello, dalla infanzia alla vecchiaia, che stanno distruggendo intere generazioni dal punto di vista psichico e fisico.
Alessandro Porcelluzzi