Ci si abitua a qualsiasi cosa. E dopo venti giorni ci sembra diventato normale che la guerra domini notiziari, telegiornali, aggiornamenti sul web e dibattiti social. Viviamo in tempi in cui a fare la differenza non è più la reperibilità delle informazioni, nemmeno la reperibilità di informazioni diverse, ma invece il filtro da applicare a una quantità enorme di informazioni e opinioni. Un filtro che ci permetta di vagliare ciò che ci investe. Di superare la sollecitazione immediata per trasformarla in riflessione. Solo che la riflessione ha bisogno di tempo, di lentezza, di immersione intensiva invece che di espressione estensiva in tempo reale. Ciò non significa sottrarsi dal prendere posizione, ma compiere un doppio movimento. Da un lato fornire una forma chiara, comprensibile e criticabile nel merito; dall’altro lasciare aperte le questioni su cui occorre ancora reperire ragioni o, come si diceva un tempo, cercare ricomposizione a un più alto livello di astrazione.
Dovremmo cominciare dalla presa d’atto di una definizione, dal nominare chiaramente ciò che è successo: l’invasione di uno Stato sovrano, l’Ucraina, da parte di un altro Stato, la Russia. Può apparire banale, ma dietro alcune delle posizioni più estreme dell’attuale panorama vi è la negazione di questa realtà. Prima ancora di allargare l’orizzonte della discussione, dobbiamo invece (come molti di noi hanno fatto in passato) ribadire questo primo elemento quasi tautologico: perché, se si salta questo dato di fatto, si finisce, pur inconsapevolmente, a giustificare una invasione, o a sminuire le sofferenze delle popolazioni aggredite.
Una volta chiarito questo primo passo, è allora possibile aggiungere elementi di riflessioni ulteriori. Sono certamente importanti gli scontri e i conflitti, all’interno della Ucraina, tra gruppi etnici e linguistici. Sono sicuramente elementi di riflessione le vicende politiche degli ultimi dieci anni; e così pure le vicende della Crimea e del Donbass. Possiamo, anzi dobbiamo, allargare ancora di più lo sguardo, fino a comprendere le evoluzioni e involuzioni politiche, i processi di democratizzazione e de-democratizzazione che si alternano, che riguardano tanto la Russia, quanto l’Ucraina, così come (sarebbe forse il caso di aprire una riflessione generale sul tema) gran parte del (fu) blocco orientale, dal 1989, o dal 1991 ai giorni nostri.
Un ulteriore piano riguarda il rapporto tra potenze e superpotenze. A questo proposito dovremmo chiederci, anche con un pizzico in più di laicità, se ad esempio la presidenza Biden abbia riportato alla guida della superpotenza americana uno schema rassicurante, adeguato, o al contrario vecchio, superato. E se, all’opposto, lo schema che era stato inaugurato durante la presidenza Trump (distensione con la Russia in funzione di contenimento della Cina) fosse una illusione o invece una strategia acuta.
La questione del ruolo degli USA si riverbera anche sulla NATO, sul suo ruolo, sui suoi confini. E questo si intreccia a sua volta con l’allargamento dell’Unione Europea, i cui confini non sono mai stati chiariti. Al contrario, di volta in volta, la richiesta di adesione, di candidatura degli Stati è stato elemento di drammatizzazione e/o retorica. Un progetto politico ed economico che non ha mai chiarito, prima di tutto ai propri membri, i termini della propria missione e della propria visione.
Ultima, ma assolutamente non per importanza, la diplomazia. In tempi di risposte rapide, in tempo reale, nulla appare più desueto della diplomazia, dei negoziati. E invece i suoi tempi, i suoi riti, si rendono oggi più che mai indispensabili. Osservare progressi e passi indietro, rilanci e rinunce, è una buona palestra. Per evitare da una parte e dall’altra (intendo: tra gli schieramenti di commentatori) di ritenere che la soluzione sia a portata di mano. Non lo è, come mai lo è nelle guerre, come mai lo è nei momenti di conflitto della Storia.
Alessandro Porcelluzzi