La guerra è tornata e nelle sue forme più tradizionali. Bombe e carrarmati, roghi, cupe vampe e suolo occupato. In queste ore, come forse non capitava da anni, si sente tutta la mancanza di strumenti di lettura condivisi. Non necessariamente unanimi, non necessariamente ecumenici, ma abbastanza ampi da fornire occhiali adeguati a un numero importante di singoli e collettivi. L’urgenza dello schierarsi è un moto sempre avvertito come particolarmente stringente in Italia. Siamo il Paese delle lacerazioni dicotomiche: dai Guelfi e Ghibellini in poi. A ciò si aggiunge (e allo stesso tempo si contrappone) un generale e piuttosto condiviso senso comune pacifista. Il risultato, nell’opinione pubblica, è un continuo fare le pulci alla posizione del vicino, del compagno di banco, via via fino alla posizione più distante considerata sguaiata. E tuttavia ciò conduce lontanissimo dalla comprensione della realtà. La sensazione è che, lontano dalla retorica resa ancora più retorica per segnare le differenze, nessuno abbia più una lettura da offrire. È più che una sensazione, più che un sospetto. La guerra che è tornata, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, dimostra in un sol colpo quanto siano vecchi i nostri schemi di interpretazione della politica, in primo luogo della politica internazionale. Un tempo i discorsi, pronunciati o scritti, dei grandi leader politici avevano una struttura per cerchi concentrici: il punto di partenza era proprio la situazione, la scena internazionale. La fine della Guerra fredda, lo sgretolarsi del blocco orientale hanno alimentato, nemmeno troppo a lungo, il mito della fine della storia. L’illusione di un mondo pacificato sotto l’egida di un solo Paese e di un solo modello politico ed economico. Ancora in questi anni il nostro sguardo si è allenato, persino eccessivamente, a osservare solo quel fuoco, solo i cambiamenti nelle amministrazioni americane, solo le iniziative economiche, politiche e militari di quella superpotenza (con le relative, più o meno accese, critiche). Mancano a noi tutti, perché prima di tutto mancano ai nostri politici, ai partiti inesistenti o fragilissimi, agli opinion-maker, convincenti interpretazioni di ciò che stava accadendo fino a ieri, ed è precipitato tragicamente oggi, in un’altra porzione di mondo. E infatti più ci si addentra nella dinamica che ha generato questo momento bellico (ovvero più ci allontana dalla comune e unanimemente condivisibile, ma pur sempre banale, condanna generica della violenza e della guerra), più le opinioni si divaricano. Segno che su questo terreno prevalgono schemi vetusti. Servirebbe invece, anzi serve sicuramente oggi, come servirà domani un livello più alto di astrazione, fuori dal manicheismo. Serve oggi, ma servirà ancora di più domani, cominciare a riprendere il filo interrotto di un discorso pubblico. Una narrazione che non sia solo retorica, ma attinga alla realtà e che provi a mettere in fila, ad esempio, il ruolo delle altre grandi superpotenze (Russia e Cina in primis). Una narrazione che descriva, invece che etichettare, i modelli politici che si stanno imponendo in tante parti d’Europa e del mondo. Una narrazione che sia in grado di dipanare la matassa intricata tra questioni etniche, autoritarismo, fonti di energia, militarismo e mille altre questioni. Serve, in una parola, ricostruire pensieri forti, per riprendere a raccontare e comprendere la storia, anche nei suoi aspetti feroci, meno edificanti. La Storia che, con tutta evidenza, non è mai finita.
Alessandro Porcelluzzi