L’Italia ha finalmente il nuovo Presidente della Repubblica, lo stesso di prima. E, più o meno sguaiatamente, tutti si affannano a rivendicare la paternità della continuità. Erano, dicono ora, tutti sin dall’inizio per la riconferma di Sergio Mattarella. Eppure, anche in un Paese dalla memoria di pesce rosso come l’Italia, è sufficiente scorrere la rassegna stampa degli ultimi giorni, settimane, mesi per ritrovare un lungo elenco di nomi e/o identikit, offerti da leader di partito, capigruppo, ministri, piccoli grandi (o grandi piccoli) elettori. Campagne social, guidate sapientemente da questa o quella sigla di partito, per avere un Presidente donna. Fiumi di inchiostro per invocare il passaggio di Mario Draghi da Presidente del Consiglio dei Ministri a Presidente della Repubblica. Poi, certo, qua e là, nel timore del pantano, delle sabbie mobili del Parlamento trasformato in Conclave, ogni tanto emergeva l’ipotesi Mattarella bis. Un piano B, anzi C, anzi Q o forse Z. Oggi improvvisamente diventato, a detta di (quasi) tutti, l’obiettivo perseguito con strategia e tattica da manuale, da quasi (tutto) l’arco parlamentare. In Italia, è noto, nessuno vuole mai perdere, dunque vincono sempre tutti. Che Mattarella abbia la caratura e le caratteristiche per essere Presidente della Repubblica è certo, tautologico, verrebbe da dire: era già stato eletto sette anni fa, è stato Presidente della Repubblica per sette anni, può esserlo nuovamente oggi. Occorre dunque discutere non dell’uomo scelto (nuovamente) per ricoprire la più alta carica dello Stato, ma della incapacità di individuare qualcun altro dopo il primo settennato. Perché non può non fare problema che la migliore scelta per il futuro (o l’unica giunta all’arrivo) sia il passato. Che a vincere davvero in questa bizzarra partita sia unicamente il partito dello status quo. A guardarla da vicino, la politica italiana ci offre, ancora una volta, un messaggio di questo tipo: l’unico collante in grado di offrire, garantire vittorie è la difesa dell’esistente. Qualunque ipotesi di futuro si presenta peggiore o impraticabile. Non è neppure giusto accanirsi nei confronti della attuale classe politica. O almeno: è ingeneroso. Retrospettivamente l’Italia è sempre stata così: consociativismo e/o conventio ad excludendum. Il potere crea un nucleo attorno a cui si aggregano, si coagulano forze che fino a ieri si ritenevano antitetiche, comunque avversarie. E lascia fuori qualcuno che ha la doppia funzione di rafforzare, per contrasto, l’armonia tra chi si trova al potere e raccogliere consenso tra gli esclusi. Chi è escluso, però, non diventerà mai alternativa di governo e potere. Non c’è alternanza in Italia. L’escluso verrà inglobato, una volta cresciuto fino a un certo livello in termini di consenso, sarà redento e reso presentabile. Qualcun altro, anche tra coloro che erano al potere assieme fino al giorno prima, svolgerà, da nuovo escluso, la funzione di momentaneo baubau, spauracchio. È la storia d’Italia, appunto. Di consociativismo e conventio ad excludendum come falsa alternativa discuteva già Norberto Bobbio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Ma le analogie rischiano sempre di lasciare in ombra i dettagli della differenza, della distinzione. L’elezione, la rielezione di Mattarella, invece, ci offre un dettaglio non trascurabile su cui esercitare una riflessione critica. Mentre nell’Italia di cui scriveva Bobbio il cuore dell’immobilismo, della non-alternanza, era plasticamente rappresentato dalla Democrazia cristiana, oggi, dovendo individuare il baricentro del partito dello status quo, non si può non individuarlo nel PD. E mentre la DC poggiava il proprio ruolo di magister ludi sul consenso di quello che fu, dalla prima alla ultima elezione in cui il simbolo dello scudo crociato appariva sulla scheda, il primo partito italiano in termini di consensi, e di gran lunga, il PD esercita un ruolo simile, e altrettanto orientato all’immobilismo, pur avendo perso tutte le ultime elezioni e contando su un quinto circa dei votanti (in tempi di astensionismo record). Insomma la DC era il partito della conservazione (e) del potere, controllando la macchina dello Stato, indirizzando, guidando e manovrando le leve, ma legittimata da un costante consenso popolare. Il PD svolge lo stesso ruolo, ma svuotato del crisma democratico: il consenso che gli manca, come un vampiro, lo riceve dai partiti che si alleano e vengono ridimensionati dalla sua funesta influenza. Alleati di governo o di coalizione si avvicinano al PD e scompaiono. Ingoiati da una macchina di solo potere, ché la politica, nel PD e ovunque, è scomparsa da tempo.
Alessandro Porcelluzzi.