Affezionati lettori de “lintelligente.it”, nell’augurarvi un felice Natale, eccovi una favola scritta da me e tratta dall’Antologia “Latte di Luna e Girandole di Stelle”, edita nel 2016 dall’Associazione culturale LunaNera che, come ogni anno, devolve i proventi derivati dalla vendita dei libri all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze.
E’ un raccontino pieno di “buoni sentimenti” come si addice ad un Natale ormai alle porte, che noi tutti vorremmo foriero di pace e serenità.
L’arcobaleno di Colibrì
Quando Colibrìbaleno nacque ci fu un gran temporale: tuoni fulmini e saette!
Colibrìmamma sbatté le ali quattro, cinque volte e poi si posò sull’unico uovo che ancora restava testardamente chiuso.
Non ce l’avrebbe fatta a restare a lungo in quella posizione: già pesanti gocce di pioggia stavano appesantendo il suo piumaggio e gli altri piccolini già nati pigolavano sul ramo più in alto dove c’era il nido dei già svezzati, protetto dal fogliame più folto.
Lei era nel nido della cova, quello più al calduccio, quello esposto al sole, almeno fino a pochi minuti fa. Adesso con quelle gocciolone che cadevano prepotenti, il nido si sarebbe presto trasformato in una barca sospesa, in balia del vento e del temporale.
-Presto!- diceva Colibrìmamma,- Fai presto, pigrone, ché tempo di uscire dall’uovo e vedere in becco tua madre! Presto!-
Niente! Ma proprio mentre la povera mammina stava per rimetterci le penne dal gran sbattere d’ali, per evitare che l’uovo annegasse in quel fiume d’acqua, si avvertì un picchiettio insistente sulla sommità dell’uovo e un capino implume fece capolino fuori dal guscio finalmente rotto.
-Eccoti pigrone,- fece Colibrìmamma- Volevi restare senza mamma ancor prima di venire al mondo?-
– Cip cip cip…- le rispose il piccolo che naturalmente non sapeva ancora cinguettare come dio comanda, per cui si limitava a quel cip cip cip che inteneriva e faceva dimenticare la sofferenza dell’attesa.
Colibrìmamma svelta lo tirò fuori e, afferrandolo per il collo, lo portò in volo nei quartieri alti.
Fu tutto un salutarsi tra piccoli con cip cip festosi che riempirono l’albero di confusione.
-Zitti zitti…buoni, che precipitate dal nido prima d’aver imparato a volare!- cinguettava Colibrìmamma non troppo convinta, ché lo scampato pericolo la rendeva più indulgente di fronte a quella esuberanza giocosa.
E fu così che ogni cosa sembrava in parte risolta; ora bisognava aspettare che quella pioggia smettesse di picchiare forte sulle foglie e tornasse il sereno.
Ma la meraviglia prima, e l’imprevisto poi, dovevano ancora riempire gli occhi di quella famigliola cinguettante.
Aspettate ancore un attimo e sentirete!
Allora, eravamo rimasti al nido sotto il fogliame e a quel temporalaccio che per poco non faceva lasciare le penne a Colibrìmamma e al suo uovo testardo!
All’improvviso la pioggia finì e davanti agli occhi sbalorditi dei piccoli s’aprì la cosa più spettacolare che mai si sarebbero aspettati di vedere: l’arcobaleno!
-Ciiiiiip ciiiiiip!!- balbettavano, spalancando quei beccucci pieni di stupore.
Colibrìmamma li guardava intenerita, felice che i suoi piccoli potessero ricevere quel regalo di luce e certa che quel ponte colorato avrebbe brillato per sempre nei loro occhi e riempito di gioia i loro cuori.
E sì, perché anche per i colibrì le prime esperienze sono quelle che condizioneranno per sempre la vita e le scelte future. E cosa ci poteva essere di più efficace di quel tripudio di colori. La loro vita sarebbe stata così: splendidamente colorata.
Per tutti, ma non per il piccolo colibrì pigrone. Lui continuava a spalancare quel becco solo per la fame e non per la meraviglia.
-Cosa c’è che non va?- si domandava Colibrìmamma che, come ogni mamma che si rispetti, era ansiosa.
Poi si accorse che quel suo figliolo tardivo non riusciva ad afferrare a volo, si fa per dire, il vermicello portatogli come cibo, anzi, se ne stava lì, mogio mogio ad aspettare chissà quale manna dal cielo.
Gli altri bricconcelli affamati già zampettavano di qua e di là nel nido, dando colpi a destra e a manca e spalancando quei becchi come se dovessero inghiottire una dozzina di coleotteri.
-Insomma,- gli diceva spazientita Colibrìmamma,- ti dai una mossa o vuoi rimanere per sempre piume e ossa ? –
Ma il piccolo pigolava sconsolato, sbandando di qua e di là, per giunta.
Così la mamma alla fine capì: il suo piccolino non ci vedeva a un palmo di zampetta.
-Ora sì che siamo fritti!- pensò Colibrìmamma disperata- Quel piccolino mi cadrà dal nido prima o poi…devo escogitare qualcosa!-
Così quella sera, non appena il nido finì di pigolare, andò da comare Cicognadotta che di problemi neonatali ne sapeva fin troppo.
Cicognadotta ascoltò con attenzione, poi inforcò i suoi occhiali e aprì il suo librone delle risposte senza risposta.
-Boh!- disse scuotendo quel suo becco ossuto,- Pare che non ci sia altra soluzione che avvicinarlo il più vicino possibile all’arcobaleno, così che ne rimanga abbacinato –
-Abbacinato?- ripeté la povera Colibrìmamma che ormai stava perdendo speranze e staffe.- E come faccio se ormai è notte e nel cielo non ci sono che stelle!-
– Beh, è semplice!- fece quella svampita di una cicogna, -Aspetta il prossimo temporale e poi agisci, se vuoi che al tuo figliolo rimangano impressi i colori nell’iride-
Fu così che la povera Colibrìmamma tornò al nido e per giorni e giorni tenne le sue ali aperte sul suo piccolo per proteggerlo dalle cadute, mentre di notte, quando la nidiata taceva, vinta dalla sazietà, dalla stanchezza e dal sonno, volava via dal nido alla ricerca di cibo per l’indomani.
E poi arrivò il temporale!
Una pioggia mai vista prima! Con fulmini che saettavano incendiando le nuvole, tuoni che percuotavano il cielo come un tamburo di gigante. Insomma una meraviglia!
Mai temporale arrivò più gradito.
I piccoli colibrì pigolavano spaventati, ma poi, vedendo la mamma che rideva e rideva …cantava e cantava, si misero a zampettare come morsi dalla tarantola che quasi precipitavano dal nido, se la mamma non li avesse spinti, ora questo e ora quello, verso il centro del giaciglio d’erba e fango.
Poi all’improvviso il silenzio: le ultime gocce caddero sulle foglie con un tintinnio d’argento e una luce bianca si posò sul bosco.
In alto un arco di luce, prima tenue e poi sempre più nitido, apparve. Un ponte di speranze per Colibrìmamma e il suo povero figliolo nato con poca luce negli occhi.
-Bene,- disse – è arrivato il tuo momento, piccolo! – e l’afferrò col becco.
Con uno sbattere di alucce, rallentato dal fardello che si trascinava dietro, iniziò a volare sempre più su, sempre più su…
Colibrìbaleno, che allora non aveva ancora alcun nome e si chiamava semplicemente colibrì, non ci si raccapezzava per nulla. Non osava frignare né chiedere spiegazioni, aveva solo una dannata paura di cadere e si teneva stretto al becco materno, col cuoricino che batteva forte.
Tutto era bianco, quel fumo di nuvole gli veniva incontro e lui l’attraversava con una facilità tale che ogni tanto, preso dall’euforia, sbatteva anche lui quelle sue alucce implumi.
Poi la luce!
Sì, vide la luce!
Un arco di sette colori: rosso, arancione, giallo, verde,blu, indaco, violetto
E lui li cavalcò tutti con la sua mamma che continuava instancabile a sbattere le sue ali sulla groppa di quella fonte multicolore.
Gli occhi del piccolo si riempirono di colori e il suo cuore li racchiuse tutti come in uno scrigno.
E fu così che Colibrìmamma aveva salvato il suo piccolo, dando retta a quella visionaria di una cicogna. Perché a volte conviene credere all’impossibile.
Da quel giorno il piccolo colibrì ebbe il nome di Colibrìbaleno perché i suoi occhi e il suo cuore si erano accesi all’improvviso come fiammiferi nella notte.
Quello fu proprio un miracolo che tutti chiamarono felicità.
Per concludere voglio condividere con voi la poesia di Trilussa, noto e apprezzato poeta, che scrisse in romanesco. Il suo testo ci fa riflettere sul vero significato della Ricorrenza più attesa dell’anno, il Natale, e su uno dei suoi più popolari simboli: il Presepe.
Er Presepio
Ve ringrazio de core, brava gente,
pè ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate,
si de st’amore nun capite gnente…
Pé st’amore so nato e ce so morto,
da secoli lo spargo da la croce,
ma la parola mia pare ‘na voce
sperduta ner deserto senza ascolto.
La gente fa er presepe e nun me sente,
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente e
nun capisce che senza l’amore
è cianfrusaja che nun cià valore.
Anna Bruna Gigliotti