Sab. Nov 23rd, 2024
  • Bevi un goccio che ti fa bene

Me lo diceva mia madre mentre mi versava quel liquido color rubino nel bicchiere trasparente. Poi me lo porgeva carezzandomi la testa. Aveva un modo tutto suo, di carezzare la testa. Sfiorava i capelli, poi affondava le dita e con le punte grattava leggermente la cute. Quel solletico, mi regalava tenerezza e non so perché, una inesprimibile  voglia di fare!

  •  Bevi un goccio!-  continuava- che ti fa bene!

Ed io bevevo di malavoglia e d’un fiato, come fosse medicina. Mi piaceva farla contenta!

E così giorno dopo giorno, mese dopo mese, ho imparato ad apprezzare quel goccio che tutti chiamavano vino. Mi chiedevo perché mai dovesse farmi bene. Da cosa derivava quel benessere? Dal colore? Che solo a vederlo mette allegria?

Forse,  dal sapore, mai lo stesso, e che quando è buono, racconta di terra, di funghi, di agrifoglio, di fiori… lo chiamano bouquet, quel sapore che rimane in gola e che porta lontano…

Perché poi, ho imparato ad amarlo, il vino, e a dare a ciascuno il suo bicchiere, alto, stretto, a coppa aperta, a coppa che si restringe e poi si apre! Quel bicchiere da osteria, di vetro spesso, che accoglie un vino robusto, che accompagna sui tavolini il gioco del tressette, o quello di cristallo, da stare attenti che può facilmente rompersi, ma che mostra in trasparenza, tutte le sfumature del rosso, del giallo paglierino…

Quando andavo in macchina con mio padre, viaggiando in su e in giù per l’Italia, nel corso di tutte le stagioni, guardavo in inverno, lunghe distese di terra di un marrone scuro su cui nascevano pali intrecciati a reti spoglie, come quelle dei pescatori messe ad asciugare. Quei pali e quelle reti, scarni, spogli,  legati gli uni agli altri, mi facevano pensare alla solidarietà, al sostegno che gli umani dovrebbero darsi per diventare una forza da cui far nascere i beni futuri. 

Mi hanno detto poi, che erano a volte di castagno, di larice, di abete, di pino.

Anche i pali, contribuiscono al sapore dell’uva. In primavera quelle reti si coprivano di gemme dal verde chiaro, in estate quelle stesse reti non si vedevano più e diventavano muri traforati di foglie di un verde più scuro tra cui faceva capolino il sole.  Trascolorava invece, tra le foglie della vite, l’aria dell’autunno e finalmente in una caleidoscopica immagine, si mostravano al cielo e agli uomini,  grappoli di occhi neri o biondi. Occhi, perché come tali li ho sempre visti.

Occhi che hanno assorbito una dolce pioggia di raggi di sole, raccolti da mani allegre e festanti, poggiati in larghe ceste e trasportati in vasche in cui nascerà la prima trasformazione:  Diventare vino.

Con occhi diversi, guardo il mio bicchiere di vino  sul tavolo e ancora non ho imparato a versarmelo da sola, aspetto sempre che una mano premurosa e gentile me lo versi e me lo porga.

Un gesto antico che sa di famiglia, di racconti di viaggi, di tempo che passa. Perché come mi ricorda il vecchio saggio quando sono triste:

“Anche questa passerà!”

Nadia Farina –

Ode Al Vino

Vino color del giorno,
vino color della notte,
vino con piedi di porpora
o sangue di topazio,
vino, stellato figlio
della terra, vino, liscio
come una spada d’oro,
morbido come
un disordinato velluto,
vino inchiocciolato
e sospeso,
amoroso, marino,
non sei mai presente in una sola coppa,
in un canto, in un uomo,
sei corale, gregario,
e, quanto meno, scambievole. […]

Pablo Neruda

La foto è di un’opera di Nadia Farina -Fonti di energia-

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