Gio. Nov 21st, 2024

L’espressione “politicamente corretto” (politically correct) nasce negli Stati Uniti intorno agli anni 30. Raggiunge la piena significatività negli anni 80, anni in cui, riconosciuto il multiculturalismo, si tenta di sradicare quelle consuetudini linguistiche discriminatorie ed offensive nei confronti di persone appartenenti a minoranze religiose e culturali, o in condizioni di disabilità ed esclusione sociale. La campagna del politicamente corretto è inizialmente incentrata sulla lingua scritta e parlata e su un uso più rispettoso della stessa attraverso l’abbandono di terminologie di natura razzista, sessista, omofoba, ecc., ma si estende, ben presto, ad ogni tipo atteggiamento considerato discriminante o marginalizzante. In nome della correttezza politica si apportano correzioni non soltanto alla lingua ma anche a manifestazioni artistiche e culturali, vengono riscritti finali di opere e di film, rimossi quadri e statue, modificati testi di poesie e canzoni. Si attribuisce una nuova terminologia ai mestieri, e la storia viene passata al setaccio nel tentativo di rimuovere, a posteriori, ogni potenziale fonte di discriminazione. L’intento è quello di generare un linguaggio inclusivo (chi non lo pratica può essere considerato offensivo e persino verbalmente violento), ma in molti casi ad essere difesi sono soltanto ideali stereotipati, mentre non cambiano realmente le forme di interazione sociale. Si sviluppa così un lessico ipocrita che, traendo origine da una serie di pregiudizi, manca di una vera fonte di ragionamento e di senso critico. La ricerca della correttezza politica a tutti i costi diviene una nuova forma di conformismo linguistico che, in nome di un sedicente senso di tolleranza e parità, tende a confondere e mistificare, rinnegando nel frattempo cultura, radici e tradizioni. La sollecitazione sempre più pressante ad alterare il linguaggio sembra tradursi in un sottile tentativo di modellare la mentalità, e finisce con lo sgretolare i principi fondanti della convivenza. Ogni cosa deve essere ridefinita di volta in volta, tutto diventa relativo e nulla è più certo e condivisibile. Attraverso la sua estremizzazione il politicamente corretto si trasforma in una censura ipocrita che rischia di rivelarsi più dannosa di ciò che tende a scongiurare: questo eccedere nella ricerca di un atteggiamento sociale che presti particolarmente attenzione al rispetto formale, evitando offese nei confronti di categorie, finisce con il sottolinearne l’esistenza, assumendo aspetti grotteschi. Diviene condanna di tutto ciò che può turbare e provocare disagio, ma poiché, potenzialmente, qualsiasi cosa può essere fonte di turbamento, genera malintesi che invece di attenuare le disparità sociali, sembrano fornire pretesti per alimentarle.

Le parole contengono senso, connotazioni, riferimenti; se pronunciate con leggerezza, possono risultare offensive, trasmettere disprezzo, discriminazione, astio, generare sofferenza. Per questo soppesare quel che si dice è estremamente importante. Ma oggi sembra essere diventato tutto politicamente scorretto.   Viviamo nel timore che qualsiasi cosa possiamo scrivere o pronunciare, rischiamo di oltrepassare canoni e confini che somigliano a trappole in cui è sempre più facile cadere. Diviene imprudente ed azzardato, tutto e il contrario di tutto, e si smarriscono quei principi inequivocabili necessari ad ispirare la condotta e la moralità. Alla fine diventa difficile persino ritrovare la propria identità, e di conseguenza compiere una reale conoscenza dell’altro, che viene uniformato all’identico. Mentre è proprio dalla differenza che nasce la comprensione.  Quella differenza che la politica attuale, orientata alla globalizzazione, tende ad annullare.  

Siamo mossi, da meccanismi di economia psichica, a categorizzare gli uomini e il mondo in stereotipi ed etichette, per semplificare ciò che ci circonda, ma finiamo troppo spesso per confondere i nomi e le parole con l’essenza del reale. Non è l’utilizzo di un linguaggio politicamente corretto a garantire un’autentica accettazione dell’altro, ma l’educazione alla comprensione delle differenze, poiché in grado di generare un linguaggio, naturalmente consapevole e spontaneamente accogliente, nella sostanza e non solo nella forma.                                       

Nunzia Manzo

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