La mediocrità è una sorta di condizione intermedia, uno stato di equa distanza dagli estremi. Quando ci riferiamo a qualcosa o qualcuno definendolo mediocre, lo consideriamo privo di tratti distintivi, e poiché intorno a questo termine si sono sviluppati pregiudizi piuttosto snobistici, in maniera sottintesa ne prendiamo le distanze, evidenziando il nostro sentirci diversi e in qualche misura speciali.
Considerando la tendenza della nostra epoca a definire tutti come esseri speciali, l’appellativo mediocre potrebbe risultare offensivo, avendo poco a conto quanto di specifico e singolare ci può essere in un individuo. Ma oggi assistiamo ad una forma di mediocrità che, valicando norme statistiche e sociologiche, e superando l’aspetto di conflittualità con la vita, è mutata in una sorta di vocazione.
Il mediocre dei nostri tempi vive strutturando la convinzione che tutto accade per cause esterne, e che né opinioni né tantomeno emozioni personali, possano influenzare gli avvenimenti. Segue la massa lasciandosi guidare dai dogmi, credendovi ciecamente, senza farsi troppe domande o informarsi troppo. Uccide la curiosità e volta le spalle a sogni e passioni. Raramente si assume la responsabilità dei risultati raggiunti, nel bene e nel male, e li attribuisce sempre a un colpevole o a un caso fortuito. Non impegna la propria vita nel tentativo di crescere e migliorare, ma tende esclusivamente a mantenere il proprio status.
Se proviamo a spogliare i termini mediocrità e mediocre dalle connotazioni di giudizio che generalmente li accompagnano, e ci limitiamo ad intenderne il significato etimologico, essi si riferiscono semplicemente a qualcosa che sta nella media.
Si può rimanere nella media per volontà, per opportunità, per condizionamento sociale.
Nella nostra società sempre più edonistica e annichilita, in cui il futuro, piuttosto che essere una promessa, si è trasformato in qualcosa di minaccioso, la mediocrità rappresenta una risposta, all’assenza di prospettive che coinvolge giovani e adulti.
Idee e progetti hanno valore soltanto se possono essere tradotti in un prodotto finito utile a soddisfare desideri e bisogni immediati. I sentimenti si inaridiscono, perdono di valore diventando non necessari. La motivazione cala drasticamente e le cose vengono fatte per dovere e forza di inerzia, e così si inizia a scivolare nella mediocrità.
Questa sorta di equidistanza diventa un modo di essere che finisce per confinare in una forma di mediocrità che investe il sentire, diventando una sterilità esistenziale, ove pare non vi sia più nulla da dire, da dare, né da ricevere dalla vita.
Il paradigma economico domina su qualunque altro, ogni cosa che facciamo deve essere misurata esclusivamente in termini numerici e di risultati, tutto deve essere agito secondo criteri di efficacia ed efficienza. Persino nel linguaggio si interiorizzano espressioni come “stare al gioco”, “essere imprenditori di se stessi”, “sapersi vendere”. Il denaro prende ad agire come elemento motivazionale, a livello psichico e comportamentale, per cui non è più un qualcosa soltanto di necessario per vivere ma diviene un valore della vita, in grado di fornire sicurezza, onnipotenza, e su cui viene proiettato, come in uno specchio identitario, il valore personale che non è più misurato per quel che si è ma per quel che si ha.
In una società che ha smarrito qualunque tipo di fede, sia religioso che laico, priva di prospettive economiche e professionali, in cui assistiamo ad un diffuso scivolare nella mediocrità e nel nichilismo delle passioni tristi, in cui ci si crogiola in un presente che sembra essere eterno, con l’unico obiettivo di rispondere tempestivamente ad impulsi e desideri, la comunicazione tra gli individui si fa sempre più blanda: essere costantemente in contatto con il mondo, attraverso strumenti tecnologici, sembra essere diventato più importante che curarsi del proprio spazio vitale e relazionale. Il pensiero critico si inaridisce e l’idea di tenersi fuori dagli schemi si allontana sempre più, preferendo incanalarsi in percorsi mentali standardizzati. Si creano così individualità da catena di montaggio, legate da affetti che tendono a rimanere sterili nella loro basicità.
Una persona mediocre predilige, più o meno consciamente, non utilizzare tutto il suo potenziale, rifiutando di fare sforzi che lo costringano ad uscire dalla propria zona di comfort: la scelta di vita di un atteggiamento di mediocrità induce a fare il minimo indispensabile, ad evitare di scoprire, vedere, provare, per non rischiare di trovare o di sbagliare. E non è escluso considerare questo atteggiamento adattivo in termini darwiniani, cioè caratteristico di una specie che evolve per adattarsi all’ambiente.
Quando però, percorrendo la via di mezzo, se ne acquisisce consapevolezza, arrivando a sfiorare la sensazione che ci possa essere in serbo qualcosa di diverso, rimanere nella mediocrità può generare sofferenza; la percezione di essere mediocri diventa allora un campanello d’allarme e spinge a riflettere su una vita che non è vissuta realmente a propria misura, e necessita di trovare qualcosa di importante per noi, che riesca ad animarci e renderci vitali.
Dopotutto, per quanto possano essere convenzionali i nostri gusti personali, e le nostre prestazioni possano mantenersi nella media, quando ci interroghiamo sul senso della vita, e ricerchiamo un contatto con l’anima, ci rendiamo conto che in esse non è contemplata l’idea di mediocrità.
Diventa impellente, in questo caso, assumere un nuovo atteggiamento, sicuramente più faticoso, poiché costringe a mettersi in gioco, ma che meglio si armonizza con quell’unicità che l’anima vuole raggiungere per aspirare ad un senso più elevato della propria esistenza.
Nunzia Manzo