Prenditi
una cotta
per la tua solitudine
Questa piccola poesia di solo tre versi mi ha svelato un universo!
La poetessa è Rupi Kaur, nata nel Punjab, oggi vive nell’Ontario.
Le sue poesie, raccolte nella silloge “milk and honey”, parlano di femminismo, amore, dolore, e sono intense, personali ma anche drammaticamente universali.
La solitudine è segno di un disperato bisogno di te stessa
Dice profetica la Kaur in una poesia di un solo verso che ci spiazza e ci tocca nel profondo.
Nel libro il verso diventa didascalico perché interpreta un disegno della stessa poetessa che rappresenta un albero dai rami che si aprono come braccia fiorite e protese al cielo, e il cui tronco ha fattezza di donna nel cui corpo scorre linfa vivifica.
Il tema della solitudine mi è sempre stato caro, e non intesa come isolamento o malinconia, ma piuttosto come ricerca e silenziosa contemplazione spirituale.
Lo sapevano molto bene i poeti romantici che ne esaltavano la potenza sublime che portava alla consapevolezza di quanto effimera fosse l’umana esistenza.
Tutti abbiamo colto e amato quel senso di Infinito che sul monte Tabor, “ermo colle”, un giovane Leopardi, dietro una siepe che gli precludeva lo sguardo, colse nella sua immensità fino a provare un umanissimo smarrimento.
Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
E a proposito di Solitudine mi è caro un ricordo che mi riporta indietro al tempo del liceo, quando, durante una lezione di Storia dell’Arte, un ancor giovane, ma per noi già attempato insegnante, ci invitò ad osservare bene il dipinto del 1818 realizzato da Caspar David Friedrich, “ Viandante sul mare di nebbia”, forse il quadro romantico per eccellenza.
Convinto di riuscire , dai e dai, a cavare sangue dalla rapa, il povero professor Greco interpellò un addormentato dell’ultimo banco che già sonnecchiava alla seconda ora di lezione.
“ Che ci vedi?” gli chiese il prof, cercando di adeguarsi al suo linguaggio.
“Boh, e che ci vedo? ” rispose un po’ seccato il malcapitato Salvatore Attanasio, per tutti Sasà.
“ Dai, sforzati! Qualcosa vedrai, no?” insisteva il Greco, detto grecale per quel soffio di noia permanente, mista a sdegno rassegnato, che lasciava uscire dalle labbra ad ogni nostra risposta balbettata ai quattro venti.
Il colmo dell’autoflagellazione però lo raggiunse quando volle stupirci con una citazione colta, riportando a memoria le parole dello stesso Friedrich:
“ Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi dai alla luce ciò che hai visto durante la notte, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno”
Niente di più folle a dirsi!
Tutti i maschi della classe chiusero un occhio con la mano premuta su a mo’ di benda e naturalmente noi femmine, che fino ad allora avevamo cercato di mantenere un contegno dignitoso per distinguerci da quegli asini, scoppiammo in una risata sonora. Beh, il tentativo del prof fallì miseramente quel giorno, ma il seme della sublime solitudine in verità si radicò nell’animo di molti di noi.
E come accade per tutte le cose inspiegabili ma mirabili, diede i suoi frutti.
Ora, come allora, a distanza di anni, quel viandante sul mare di nebbia con i capelli scompigliati dal vento e il suo cappotto verde scuro, chiuso in quel nostro unico occhio vigile, continua ad ammirare quel panorama mozzafiato. La nebbia inghiotte le montagne insieme ai suoi pensieri. Si riesce ad indovinare sul suo volto, a noi per sempre nascosto, un’inquietudine romantica, carica di meraviglia e timore verso una natura trascendente. Metafora dell’umanità intera, viaggiatrice e spettatrice del sublime fuori e dentro di sé.
E con una poesia illuminata della Rupi kaur ”equilibrio” che voglio terminare questo mio articolo.
Per ogni cosa che sa stupirmi, grata.
“ringrazio l’universo
che ha preso
tutto ciò che ha preso
e mi dà
tutto ciò che mi dà”
Anna Bruna Gigliotti