Li hai chiamati d’oro, quel giorno, dopo che l’ultimo invitato era partito…
ai tuoi capelli d’oro… che possano sempre… che possano sempre…
Quel giorno. Che giorno?
Questa poi!
Le parole mancano, ci sono delle volte in cui perfino loro mancano.
Non è vero, Willie?
Non è vero, Willie, che perfino le parole mancano, a volte?
Con queste prime battute della protagonista, Winnie, Samuel Beckett dà vita allo straordinario monologo del 1961 “Giorni felici”. La narrazione di una vita ai margini della follia.
Un’opera in cui non succede nulla, ma che attraverso “le parole che mancano”, aggiungerei di significato logico, portano lo spettatore oltre gli schemi del vivere quotidiano.
I dialoghi, in verità monologhi, si susseguono tra i due protagonisti che non si guardano mai e non comunicano mai. Due esistenze liquide e distanti. Inchiodate però ai loro giorni attraverso gesti e azioni abituali. Stanchi ma aggrappati inesorabilmente ad una vita che li consuma.
La prima assoluta dell’opera fu allestita al Cherry Lane Theatre di New York, mentre in Italia fu Strehler a portarla al Piccolo Teatro di Milano nel 1982.
Wennie fu interpretata da una insuperabile Giulia Lazzarini.
Con un eloquio rapido e preciso, sull’orlo di una crisi di nervi, la protagonista cerca di resistere ma nello stesso tempo di abbandonarsi al risucchio della voragine esistenziale in cui si trova intrappolata.
Infatti Winnie viene rappresentata sulle scene circondata da sabbia bianca in cui lentamente sprofonda.
Desolazione e vuoto sì, ma anche lotta e resistenza nel compire gesti quasi rituali e catartici.
Ho riflettuto molto in questo lungo periodo sulla condizione umana che stiamo vivendo, a causa del covid. A volte mi sono sentita come Winnie, condannata a resistere, a ripetere gesti.
A cercare risposte senza ottenerne. Un vivere nell’incertezza. Un precipitare nella sabbia mobile della nostra stessa immobile, assurda impotenza.
Proprio per questo mio sentire sospeso che con meraviglia e piacere ho accettato l’invito di Milena Bosetti di interpretare Winnie in uno spazio-mostra di singolare narrazione visiva dove erano esposte le opere di Liala Polato.
Naturalmente mi sono limitata alle prime battute della protagonista, ma ciò mi è bastato per recuperare visioni intime e private emozioni.
E’ doveroso, ora, dare qualche informazione sull’autore del testo teatrale.
Samuel Beckett, nato a Dublino il 13 aprile del 1906 e morto a Parigi il 22 dicembre del 1989, è stato uno scrittore, drammaturgo e sceneggiatore.
Rappresentante assoluto del “Teatro dell’assurdo”.
Un genere teatrale che rompe gli schemi e a volte ci destabilizza.
Nel 1969 vinse il Premio Nobel per la Letteratura. La sua opera principale è “Aspettando Godot” del 1952.
Anche in quest’opera tutto è sospeso. L’attesa di Godot che rimanda sempre il suo arrivo al giorno dopo, lascia Vladimiro e Estragone in perenne incertezza.
Sulla scena si muovono personaggi che vanno e vengono. Un’umanità a volte istrionica, a volte litigiosa, altre volte spaventata. Sempre drammaticamente resistente.
Voglio terminare questo mio articolo con un aforisma dello stesso Beckett che rispecchia il nostro sentire e il percepire il tempo, lo spazio, oggi. Assurdo? Sì, forse, ma dannatamente.
Quando mi viene chiesto da quanto sono io qui, io rispondo “Un secondo…” o “Un giorno…” o “Un secolo”. Tutto dipende da che cosa io intendo per “qui…” e “io…” e “sono”
Anna Bruna Gigliotti