Il concetto di razza fu applicato per la prima volta nel ‘700, da Buffon e Linneo. I due biologi realizzarono una classificazione dell’uomo basata su colore della pelle e su forme e dimensioni di parti del corpo. Si fece strada così l’idea che alcune caratteristiche fisiche potessero influenzare lo sviluppo degli individui, come, ad esempio, la misura del cranio o la forma del volto, considerati indicatori dello sviluppo cerebrale. Sebbene queste idee non abbiano mai trovato un riscontro scientifico, e siano per questo superate, contribuirono all’elaborazione di una gerarchia delle razze che si affermò, nel secolo successivo, ponendo in cima la razza ariana, probabilmente risentendo dell’influenza del neoclassicismo che identificava l’ideale di bellezza nelle candide statue greche. Da quel momento ebbe inizio un processo di discriminazione politica e sociale, nonché di schiavizzazione, che trovò proprio in questa gerarchia la legittimazione di un’ossessiva ricerca di superiorità, oltre che nella razza, nel livello di sviluppo, nella lingua e cultura, nella religione e spiritualità dei popoli. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo il razzismo assunse caratteristiche di dominio e violenza, ispirando le dottrine del nazismo. Il passaggio chiave, in questo processo, fu rappresentato dal concetto di “identità etnica”, che da astratto fu reso reale e concreto mediante l’esasperazione delle differenze e la minimizzazione delle somiglianze, e dal consolidarsi dell’idea di etnia come riferimento per la costruzione del senso di appartenenza. Si compì così una con-fusione antropologica tra senso biologico di razza e concetti socio-psicologici prodotti dalle diverse culture.
Il razzismo di oggi trae origine dal passato che, attraverso un’artificiosa costruzione della memoria, rimanda informazioni apparentemente utili a giustificare l’odio verso l’altro. La discriminazione razziale, per quanto basata su criteri differenti, a seconda dei contesti geografici, storici e politici, ha da sempre identificato il confronto con la diversità come uno scontro in cui l’altro viene percepito come inferiore. La diversità delle culture è stata raramente considerata un fenomeno naturale, e le forme culturali più lontane da quelle con cui ci si identifica, vengono spesso respinte e ripudiate in quanto non conformi alle proprie norme di vita. Il progredire delle culture viene valutato con una prospettiva etnocentrica, appare tanto più accettabile quanto più si muove nella direzione della nostra cultura di appartenenza, considerata più evoluta in quanto valutata negli aspetti relativi alla nostra civiltà, senza mai guardare ad altro, come ad esempio l’adattamento all’ambiente, l’armonia delle relazioni umane, l’equilibrio tra il corpo e la mente, aspetti in cui quelle stesse culture potrebbero risultare molto più evolute della nostra.
Esiste nell’uomo un bisogno innato di spiegare e semplificare l’ambiente che lo circonda al fine di renderlo comprensibile, un processo fisiologico che induce a categorizzare, creando un insieme di generalizzazioni che, pur non essendo sufficientemente supportate da fatti, diventano prodromi di quei pregiudizi che sono alla base degli atteggiamenti di razzismo e intolleranza. Il pregiudizio razziale è, fondamentalmente, un atteggiamento difensivo, finalizzato a preservare lo status sociale dell’individuo e del gruppo a cui appartiene; quando sfocia nel bisogno di creare distanza e superiorità, esso rivela l’esistenza di una profonda difficoltà ad affrontare la diversità e il cambiamento, nonché un’estremizzazione del senso dell’appartenenza, vissuta come dimensione esclusiva piuttosto che inclusiva. Le persone più facilmente governate dal pregiudizio sono quelle meno strutturate e per questo più fragili. Esse nutrono profonde insicurezze e sono vulnerabili a quelle situazioni che possono mettere a rischio qualunque tipo di stabilità abbiano raggiunto, aderiscono in maniera rigida e acritica alle convenzioni, esprimono un profondo bisogno di sottomissione ad un capo, tendono facilmente alla superstizione e sono incapaci di assumersi responsabilità, che vengono proiettate sull’altro e attribuite a cause esterne. Spesso si tratta di persone che sono state esposte durante l’infanzia e nella vita adulta, a frustranti esperienze di deprivazione, e hanno sviluppato sentimenti di aggressività e ostilità, che, non potendo esprimere all’interno del proprio gruppo, del quale cercano a tutti i costi mantenere il consenso, riversano su oggetti isolati e facilmente individuabili, all’interno della società, che diventano una sorta di capro espiatorio. In tutti gli atteggiamenti discriminatori risulta evidente l’incapacità di gestire la differenza; ma a spaventare è anche la somiglianza con l’altro, che personifica, in qualche misura, i contenuti di un conflitto interno tra il vecchio e consueto, che persiste, e l’appetibile nuovo, ancora temuto. Il razzismo è parte, dunque, della nostra tendenza a escludere e tenere lontane le nostre zone d’ombra. Il fenomeno va però inquadrato in un contesto più ampio e generale, di cui gli aspetti psicologici costituiscono una parte, insieme a molti altri fattori, sociologici e culturali, e in nessun caso può essere inteso come fenomeno individuale poiché, per quanto ciascun individuo possa agire autonomamente, l’idea di razzismo e odio etnico riguarda inequivocabilmente un gruppo di appartenenza in opposizione ad un altro.
La nostra vita è condizionata da diversi pregiudizi, che entrano a far parte dei nostri schemi di riferimento e ci permettono di conformarci al gruppo di appartenenza. In questo senso alcuni di essi possono essere considerati funzionali poiché, unitamente alla memoria, consentono una sorta di previsione del futuro che assicura sopravvivenza e riproduzione. Essi hanno una precisa funzione psichica volta a tutelare il nostro equilibrio preservandoci da bisogni, desideri, emozioni, motivazioni, azioni, inaccettabili per noi e per il nostro contesto relazionale. Alla base del razzismo vi è dunque una funzione psichica, in origine adattiva, che ha perduto questa caratteristica nel momento in cui la civiltà si è sviluppata evolvendosi in una grande ed unica popolazione. L’approccio alla questione richiede considerazioni complesse che, oltre a valutare un atteggiamento politico innegabilmente deprecabile, devono includere aspetti relativi all’equilibrio psichico dell’individuo. Cercare di combattere il razzismo in maniera semplificativa, focalizzando una categoria di persone stigmatizzate come razziste, produce come effetto ulteriori comportamenti discriminatori, e le misure di contrasto attualmente in atto per ridurlo rischiano di avere l’effetto di alimentarlo, questo perché, nella necessità di contenere il fenomeno nella sua funzione sociale, viene trascurata quella psichica e la sua ragion d’essere. Per contrastare il razzismo come fenomeno sociale si rende necessario includerlo come fenomeno psichico, compiendo un’analisi dei bisogni di chi lo esprime, che si rivelano, in origine, non tanto diversi da quelli di ciascuno di noi che vuole appartenere e conformarsi per essere socialmente riconosciuto, integrarsi, mantenere la propria stabilità.
Ben altra cosa sono i deprecabili fenomeni di violenza, di matrice razzista, al cui intensificarsi andiamo assistendo: queste considerazioni non intendono minimamente riferirsi a questi aspetti ma hanno come unico obiettivo l’analisi delle origini meramente psichiche del razzismo. Se comprendiamo a fondo queste ragioni, allora possiamo permetterci di essere razzisti, a patto di sapere di esserlo e avere consapevolezza del reale significato di quella forma di razzismo che alberga in ciascuno di noi, così che, accogliendo questa parte “diversa” di noi, possiamo accogliere l’altro “diverso” da noi, ed imparare a conviverci, rendendo possibile una civiltà mondiale che nasca dalla coalizione delle culture più disparate in cui ognuna possa preservare la propria originalità e specificità.
Nunzia Manzo