Gio. Nov 21st, 2024

O che bel castello marcondirondirondello
o che bel castello marcondirondirondà
O che bel castello marcondirondirondello
o che bel castello marcondirondirondà

Il mio è ancor più bello marcondirondirondello
il mio è ancor più bello marcondirondirondà
Noi lo ruberemo marcondirondirondello
noi lo ruberemo marcondirondirondà

Chi non ricorda questa filastrocca? Una delle canzoncine più popolari per bambini  e che si sente ancor oggi, dopo tante generazioni.

Una cantilena divertente, quasi un nonsense, che in quanto tale non si propone certo di insegnare qualcosa di storico ad un gruppo di bimbetti attenti , ma solo di divertirli, accompagnando le frasi con gesti ripetitivi che li aiutino a sviluppare il senso del ritmo.

Magari qualche ragazzetto  più curioso avrà pur chiesto di chi fosse quel castello e gli sarà stato risposto con un “ forse, chissà, si dice che sia di un certo Marco di Rondello”.

Qualunque sia stata nel tempo la risposta data, il castello avrebbe continuato ad essere rubato, bruciato, spento e rifatto. Così come si narra nelle strofe che seguono e si inseguono.

Eh sì, il castello è stato sempre presente nella vita di ognuno di noi!

A ciascuno il suo castello, direi! E lo affermo con convinzione sia che vogliamo dargli una valenza metaforica di fortezza in cui rinchiudiamo le nostre private emozioni, sia più realistica come semplice, e non meno importante, luogo di appartenenza in cui  ci piace sentirci radicati .

Come tutti, anche io ho il mio castello con torri di pietra svettanti sul borgo sottostante.

Che importa se si tratta ormai solo di un rudere abbandonato all’incuria del tempo .

Resta e  resiste  in me con le sue storie rinchiuse nel buio della torre  piena di presenze che aleggiano e respirano. Un soffio lieve che si insinua attraverso le feritoie,  lungo i camminamenti  delle pietre sconnesse e pericolanti.

Ed eccolo il mio castello. Quello della mia storia, ma che potrebbe somigliare a quella di tanti di voi che si riconoscono nei miei stessi ricordi e nelle mie stesse emozioni.

Pertanto lo  narrerò in terza persona. Sarò quell’Anna dagli occhi pieni di meraviglia.

Anna da bambina abitava in un quartiere chiamato  “La Torre”,  nel paese di suo padre: Nicastro, in Calabria. Un luogo che oggi, nel ricordo, a distanza di molti e molti anni dai fatti, resta ingabbiato lì, in quel posto dove ristagnano e fluttuano storie.

Eccola allora quella bambina che con le gambe  penzoloni, infilate tra le sbarre del balconcino dello studio del padre, guardava davanti a sé, volando sui vicoli stretti, che si aprivano come ferite tra i muri delle case vocianti. Davanti ai suoi occhi i resti diroccati del vecchio castello. Anzi della torre, svettante coi suoi resti sul rione di San Teodoro.

Il padre di Anna, pur nel  modo gustoso dell’affabulatore che pesa parole e fatti  ma ne ricama i margini per rendere il racconto storico più allettante possibile, le parlava della storia documentata. Le raccontava dei Bizantini e degli Svevi. Di Federico II che  vi aveva soggiornato con la famiglia. Le parlava poi del figlio ribelle di Federico, Enrico, che era stato rinchiuso in una torre per due anni e che poi era morto suicida nel 1242.

Alla sua domanda sul perché restassero  solo pochi ruderi abbandonati, le rispondeva che un terremoto del 1638  aveva ridotto totalmente in rovina il castello.

In verità a lei quelle sue storie  piacevano, ma non la facevano “volare”.

Allora interveniva la zia Elvira che di racconti antichi ne sapeva, eccome! Volare sulle ali delle sue parole era uno scherzo da ragazzi!

Le raccontava della Tana delle fate  e la storia della Chioccia e i pulcini d’oro, ma quella che le faceva battere il cuore era la leggenda  “Il Paggio e la Principessa”.

Nel 1245 l’imperatore Federico II abitava nel castello di Nicastro con la sua famiglia .

 Nella corte imperiale era stata accolta una trovatella di nome Maria che fu adottata da Federico di Svevia che le diede il nome germanico di Ingrid.

Nel castello vi erano molti paggi e a servizio della ragazza ne fu messo uno di nome Gerlando. Ingrid e Gerlando presto si innamorarono. Succede quasi sempre così e mai a lieto fine, pare.

Quando Federico II venne a sapere del fattaccio,  scatenò la sua ira di maschio alfa.

Minacciò subito di morte il paggio che, avvisato dalla sua amata, saltò in groppa ad un cavallo e fuggì, rifugiandosi nella boscaglia del monte Reventino.

La povera Ingrid venne rinchiusa nella stessa stanza dove in precedenza era stato confinato l’infelice figlio ribelle dell’imperatore.

La ragazza, per consolarsi, si affacciava alla finestra della sua prigione e guardava i luoghi che l’avevano vista felice e innamorata del suo Gerlando.

Trascorso qualche mese dalla sua fuga, il paggio, venuto a conoscenza della sorte della sua amata, decise di tornare di nascosto per vederla. Così ogni notte sfidava il pericolo e, scendendo dal suo rifugio nei boschi, raggiungeva il castello e, per far sentire la sua presenza alla ragazza, le suonava la loro canzone d’amore.

Ingrid dal canto suo, quando faceva buio, posizionava sulla finestra della prigione  una lucerna  per fargli capire che lo stava aspettando e che lo avrebbe amato per sempre.

Anna ascoltava il racconto della zia con attenzione.  Ancora non conosceva questo sentimento, ne intuiva però la bellezza e la forza ancestrale che sentiva battere da qualche parte nelle vene dei polsi mentre stringeva le inferriate del balconcino. Gli occhi fissi sul maniero per cogliere le ombre del passato. L’Elvira le citava anche dei testimoni, per rendere la storia più misteriosa e avvincente, ma anche  il più credibile possibile. Le diceva quindi che molte persone anziane del rione San Teodoro conoscevano quella leggenda, anzi giuravano di aver visto più volte un lucignolo ardere  in un punto della rocca. Alcuni affermavano di aver sentito un sommesso parlottio durante le calde notti estive. Altri ancora di aver sentito grida di dolore.

Davanti agli occhi sgranati di Anna, mossa a compassione e temendo di aver esagerato un po’, la zia Elvira aggiustava il tiro e con aria saggia concludeva che forse si trattava solo della voce del vento che  scendeva in fretta dal monte Reventino, soffiando tra le pietre del castello.

Questa conclusione però non convinceva del tutto Anna  e in cuor suo sperava di poter vedere anche lei, almeno una volta, la luce flebile della lucerna brillare nella notte, ascoltare una canzone d’amore sussurrata,  e credere finalmente nell’impossibile.

Anna Bruna Gigliotti

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