Per centinaia di migliaia di anni gli uomini hanno conservato e trasmesso le loro conoscenze confidando unicamente nella memoria, formidabile facoltà dell’intelletto, che però ha in sé il limite di non essere estensibile oltre certi limiti. L’invenzione della scrittura, oltre 5000 anni fa, di colpo ha fatto compiere alla storia un balzo in avanti sulla strada del progresso: da allora l’uomo non ha più smesso di registrare, conservare e diffondere dati, conoscenze, esperienze, ingaggiando una inarrestabile lotta per sottrarre all’oblio la memoria di sé e del suo vissuto.
I moderni strumenti tecnologici hanno poi portato alle estreme conseguenze il fenomeno della registrazione e conservazione dei dati, amplificando e potenziando la possibilità umana di ricordare, ricercare, riutilizzare ciò che nel tempo è stato prodotto: un progresso fino a qualche decennio fa inimmaginabile. Il web è, di fatto, un archivio permanente e pressoché indelebile, in cui ogni giorno milioni e milioni di persone immettono informazioni di ogni genere, incluse, però, quelle di tipo personale: i propri gusti, pensieri, stati d’animo, ricordi, ma anche foto e video che immortalano momenti dell’esistenza, consacrandoli quasi all’eternità. La navigazione su internet implica inevitabilmente il disseminare tracce di sé, che, tuttavia, con il passare del tempo, rischiano di non rappresentare più l’individuo a cui appartengono, fornendone un’immagine lontana da ciò che è diventato. E se, in un qualsiasi momento, ci si pente di aver comunicato informazioni personali, cancellarle in maniera permanente è molto difficile. Esse infatti entrano a far parte di enormi database, per essere usate a scopi commerciali, vera merce di scambio tra multinazionali, enti, e perfino governi.
Due sono i problemi in merito, per lo più sottovalutati dalla maggior parte degli utenti della rete: la perdita del controllo sulle proprie informazioni e la creazione di un’immagine digitale fatta di elementi senza connessione tra loro e non organizzati in una successione temporale.
Viktor Mayer- Schönberger, in un Testo già nel 2010, “Delete- Il diritto all’oblio nell’era digitale”, riferisce del caso di Stacy Snyder, un’aspirante insegnante a cui non venne concesso il posto di lavoro per una foto che la ritraeva su Myspace con una birra, e quello di Andrew Feldmar, settantenne psicoterapeuta di Vancouver, che nel 2006, nell’attraversare il confine tra Canada e Stati Uniti per accogliere un amico all’aeroporto di Seattle, fu trattenuto per ore. Infine gli fu impedito di entrare negli USA, in quanto alla dogana l’agente di guardia, digitando il suo nome su un motore di ricerca, aveva trovato un articolo, di cinque anni prima, nel quale si accennava al fatto che Feldmar negli anni ’70 aveva fatto uso di Lsd. Si tratta certamente di casi limite, esempio tuttavia di cosa può accadere in una società in cui, grazie alle tecnologie digitali e alla enorme memoria, accessibile e poco costosa, “dimenticare è diventato l’eccezione e ricordare la norma”.
“La bellezza dell’informazione digitalizzata”, scrive Mayer- Schönberger, “è che per cancellarla basta premere delete. Di primo acchito è così, ma raramente lo è”. Infatti navigando su internet e condividendo file, lasciamo tracce, di cui perdiamo il controllo. Ad esempio, se si acquista un libro su un sito di vendita on line, quest’ultimo ce ne consiglierà altri ai quali potremmo essere interessati. Ciò avviene incrociando i nostri dati di navigazione con quelli di altri utenti. I motori di ricerca, poi, sono in grado si salvare ogni ricerca effettuata dai loro utenti: basta un semplice click e tutto rimane nella memoria del sistema. Quindi, conservando login, cookies e indirizzi IP, possono quindi ricostruire le ricerche fatte nel tempo da ogni utente con grande precisione, grazie alla loro enorme memoria digitale che aumenta di anno in anno del 30%, in virtù del continuo abbattimento dei costi della tecnologia di memorizzazione.
Si avverte, dunque, sempre più la necessità che gli utenti possano avere l’accesso e il controllo delle proprie informazioni, per apportarvi modifiche o cancellarle del tutto. E’ appunto il cosiddetto “diritto all’oblio”, ovvero il diritto di far cessare il trattamento dei propri dati o anche di scomparire definitivamente da siti internet, caselle di posta elettronica, social network in cui si è navigato.
Attualmente in Italia il Codice in materia dei dati personali, se pur riconosce formalmente il diritto all’oblio, di fatto non lo garantisce.
La soluzione che propose Mayer- Schönberger è di introdurre una data di scadenza per le informazioni on line, anche se in tal modo si perderebbe l’aspetto fondamentale di internet, quello per cui è nato, ovvero essere un archivio di informazioni e conoscenze, permanente, di facile accesso ed economico. E’ innegabile, però, che la soluzione prospettata in “Delete” esprime il desiderio di un web a misura d’uomo, in cui si tenga conto del fatto che gli individui cambiano con il passare del tempo, spesso si evolvono e di conseguenza cambiano anche il punto di vista sulla realtà della loro esistenza.
Ludovica Ascione