Qualche tempo fa scrissi un post per stigmatizzare l’uso, improprio e a scopo denigratorio, meglio: l’abuso, di categorie psichiatriche.
Usare le parole depresso, bipolare, schizofrenico per offendere e ridicolizzare un interlocutore o un avversario, osservavo, è feroce, barbarico.
Perché chi convive davvero con queste patologie le sente utilizzate (per strada, sui social) come arma di distruzione della credibilità e dignità.
Perché la malattia, fisica o psichica, non è una colpa, ma parte della condizione umana.
Perché, infine, denota, da parte di chi si muove in questo universo semantico, una concezione della normalità prossima alla più cupa stagione della selezione della razza.
Mi riferivo allora a gente ordinaria, all’uomo qualunque.
Ma se l’onnipresente Travaglio, la star del giornalismo da procura, l’idolo dei giustizialisti di ogni risma usa “bambino ritardato” per sbeffeggiare un suo collega avversario in un editoriale, sul serio, dove vogliamo andare?
Alessandro Porcelluzzi