Dunque Enrico Letta è il nuovo segretario del PD. Conte ha accettato l’incarico di leader del M5S, mentre lo stesso movimento vive un momento di divisione e ribolle di contraddizioni. Giorgia Meloni ha lanciato la sfida silente a Salvini (già messo in discussione da molti colonnelli della Lega) come leader del centrodestra.
Ma questo avvicendarsi rapidissimo, tutto italiano, di leader e di progetti politici è una anomalia.
Non avremo alcun Biden, come non abbiamo avuto alcun Trump. Non avremo nemmeno un Johnson, come non abbiamo avuto lustri fa un Blair. Non abbiamo una Merkel, come non abbiamo avuto uno Schroeder.
Non è questione di esterofilia. In Italia non può esserci alcuno di questi leader e di questi progetti politici perché manca in alto un sano realismo politico. Come manca in basso un sano realismo di sé.
Per avere leader longevi e progetti politici duraturi occorre invece proprio questo. Il realismo politico serve a costruire ponti, cementare consensi, cambiare direzione dopo aver riconosciuto i punti critici del sentiero percorso in precedenza.
Ma ciò è possibile solo ove i cittadini siano aggregabili secondo schemi, gruppi sociali (classi, si sarebbe detto un tempo), tra loro omogenei. E in cui la piena consapevolezza dei bisogni diviene materia prima per includere, allargare, perimetrare l’azione politica.
L’Italia vive invece, tanto tra i rappresentanti quanto tra i rappresentati, in una gigantesca nuvola di autoillusione. Nessuno vuole essere ciò che è. E si racconta di essere qualcosa d’altro, di più, come minimo qualcosa di diverso o migliore rispetto al proprio vicino.
Prendete, solo come esempio, la questione lavoro: dovrebbe essere il tema dei temi, specie in una situazione di crisi permanente strutturale, acuita dalla pandemia e dai relativi lockdown. Ma al di là dei mugugni, nulla si muove.
I cosiddetti garantiti, dagli statali di ogni genere e risma (dagli alti dirigenti dei ministeri alle maestre, dai magistrati agli infermieri) alla aristocrazia operaia sindacalizzata, oramai sanno poco del mondo del precariato, del lavoro sottoqualificato. E sanno da sempre poco i nulla del lavoro autonomo. Vagano tra luoghi comuni, oscillano tra una solidarietà che sa di elemosina e l’invettiva moralistica contro gli evasori. Il collante all’interno (tra elementi tanto diversi per reddito e condizioni di vita) è una vaga e fumosa, quanto inefficace, narrazione, la coperta che va dal PD ai cespugli più di sinistra: ogni tanto una battuta sulla patrimoniale, di tanto in tanto qualche rigurgito statalista, una unità dei lavoratori vagheggiata più per abitudine che per convinzione. Non comprendono ciò che sono, o al massimo vorrebbero fingere di essere qualcosa d’altro.
I lavoratori manuali veri, ma anche gli impiegati di concetto ma discontinui, precari, hanno altre preferenze politiche. Così come la maggior parte dei lavoratori dipendenti dal privato. È il bacino che ha portato sugli altari il M5S. Non, come ha detto qualcuno fino al Conte 2 escluso, barbari analfabeti. Anzi spesso nella media con un grado di istruzione più alto di alcune pecore che pascolano nella destra e nella sinistra storiche. Solo che, al contrario dei cooptati, erano fino a ieri esclusi dall’ingranaggio. E dunque nemmeno qua è possibile cercare interesse vero per la categoria del lavoro. Perché anche loro non hanno orgoglio di identità. Non amano ciò che sono (erano): aspiravano solo a diventare quello che gli altri erano già.
Quello stesso bacino ha premiato anche la Lega per un po’. Oggi pur avendone conservato una parte, ha perso potere e capacità di espansione. E torna come il resto della destra a cercare il consenso di autonomi, commercianti, imprenditori che, pure loro, non vogliono essere ciò che sono. Perché hanno introiettato il rifiuto dello Stato (nel doppio e biunivoco senso: lo Stato rifiuta loro, non li riconosce come interlocutori; ed essi negano la sovranità dello Stato, ne disconoscono meriti e responsabilità in positivo). Ma soprattutto perché non si riconoscono più, l’immagine riflessa nello specchio non somiglia più al ricordo che avevano di se stessi. La crisi fa scivolare e, ancora più del denaro, crolla la considerazione di sé.
Non avremo un Biden, né un Johnson né una Merkel, come non abbiamo avuto un Trump, un Blair e uno Schroeder, perché siamo una società spappolata. Ognuno vorrebbe essere qualcosa di diverso da ciò che è. Ognuno, prima ancora che essere sordo alle altrui esigenze, detesta sé stesso: ciò che è o che è diventato.
Alessandro Porcelluzzi