Si racconta che negli ultimi anni Elsa Morante chiedeva a tutti quale fosse la frase più vera, quella che riesce ad esprimere al massimo il sentimento d’amore. Tutti rispondevano usando parole ricercate, quelle che ritenevano più romantiche, più toccanti. Lei invece rispondeva: No, la frase d’amore, l’unica, è “ Hai mangiato?”.
Come tutti sapranno Elsa Morante, nata a Roma il 18 agosto del 1912 e morta il 25 novembre del 1985, è stata tra le più importanti narratrici del secondo Dopoguerra.
Tra le sue opere più conosciute l’isola di Arturo, Una Storia, Menzogna e sortilegio.
Nel 1936 incontrò Alberto Moravia, scrittore, saggista, sceneggiatore, uno degli scrittori più tradotti al mondo. Al tempo aveva già pubblicato Gli indifferenti e Le ambizioni sbagliate.
Lui aveva 29 anni e lei 24. Si sposarono il 14 aprile del 1941 ma il loro matrimonio fu tormentato e a tratti drammatico.
“Bisogna sapere che io, per mia sorte, fui sempre di quelli che s’innamorano in modo eccessivo e inguaribile, e dei quali nessuno mai s’innamora. Mia madre era stato il primo, e il più grave, dei miei amori infelici”
Queste parole, tratte dal romanzo Menzogna e sortilegio, con cui la Morante vinse nel 1948 il Premio Viareggio, e che la fece entrare a pieno titolo nell’ambiente culturale e intellettuale romano, rappresentano indirettamente il suo stato d’animo di quegli anni.
Poi arrivò il Premio Strega con L’isola di Arturo nel 1957. Il romanzo, impasto di elementi realistici e fiabeschi, con un linguaggio pieno di suggestioni, la confermò grande scrittrice.
Dopo 26 anni di matrimonio, e dopo varie crisi, nel 1961 la Morante e il Moravia si lasciarono definitivamente. La Morante ebbe una breve relazione con Luchino Visconti e in seguito col pittore americano Bill Morrow, morto suicida. Dopo di lui la scrittrice non ebbe altri legami e morì sola e infelice nel 1985. Moravia dopo la separazione dalla Morante ebbe due storie importanti: con Dacia Maraini e con Carmen Llera che sposò nel 1986.
Moravia raccontò di aver appreso della morte di Elsa a Bonn e di essere tornato a Roma per il suo funerale. Scrisse:
“andai a vedere la salma esposta nella bara. Il viso di Elsa negli ultimi anni si era trasformato nel senso di una vecchiaia un po’ funesta. Con la morte era tornato a un aspetto quasi infantile, sereno, forse sorridente. Nella corsa del carro funebre i fiori, probabilmente male assicurati alla corona, volarono via uno dopo l’altro e andarono a schiacciarsi sull’asfalto: quei fiori che volavano via tra il carro funebre di Elsa e la mia macchina mi fecero un’impressione delirante e simbolica: così era volata via Elsa dalla mia vita”
Tornando a quel suo “ Hai mangiato?”, con cui ho iniziato il mio articolo, ho riflettuto molto ultimamente su questa asserzione che assume una valenza quasi assoluta, per non dire karmica.
Da un anno infatti siamo costretti per molto tempo, a causa del coronavirus, a restare a casa e a dedicare gran parte della nostra giornata alla cucina come svago, ma soprattutto come cura verso chi abita con noi e verso noi stessi.
Cibarsi non è solo un atto che ci porta a soddisfare un bisogno primario che ci permette di vivere, ma nella relazione interpersonale ha a che fare con l’attenzione all’altro. Con l’amore. La prima cura la riceviamo dalla mamma quando veniamo al mondo perché, inadatti a sopravvivere autonomamente, ci aggrappiamo al suo seno con tutta la nostra fame.
Il primo imprinding ci salva e ci condanna. Ci sfama e ci incatena, condannandoci all’interdipendenza di pancia e cuore.
Non voglio certo entrare nel campo minato della psicologia, non ho la pretesa di analizzare a fondo il problema, voglio solo riflettere su una domanda che spesso risuona sulle labbra di chi si preoccupa di noi e sulla nostra stessa bocca quando vogliamo che qualcuno si senta accolto.
Nell’antica Grecia la xenia riassume il concetto di ospitalità. Era un riconoscere allo straniero la sua divinità prima della sua umanità. Veniva quindi accolto e sfamato.
Il termine xenia deriva da Xenios, epiteto di Zeus, protettore dei viandanti.
Tutti noi ancor oggi, all’arrivo di un ospite anche inatteso, poniamo questa domanda “Hai mangiato?” e ci preoccupiamo subito di soddisfare il suo bisogno, anche se non espresso apertamente. Questo prenderci cura dell’altro crea un legame affettivo profondo. Sacro.
La madre per tutta la vita lo chiederà al figlio. Per sempre lui ricorderà il cibo preparato da lei per lui. Quello che sfamò e sfama la sua anima.
Quello che rappresenta l’amore che si fa pane. Che dona.
Voglio concludere questo mio articolo con la bellissima poesia di Henry Charles Bukowski.
I suoi versi sono viatico per i miei giorni, affamati di Poesia:
Non ho smesso di pensarti,
vorrei tanto dirtelo.
Vorrei scriverti che mi piacerebbe tornare,
che mi manchi
e che ti penso.
Ma non ti cerco.
Non ti scrivo neppure ciao.
Non so come stai.
E mi manca saperlo.
Hai progetti?
Hai sorriso oggi?
Cos’hai sognato?
Esci?
Dove vai?
Hai dei sogni?
Hai mangiato?
Mi piacerebbe riuscire a cercarti.
Ma non ne ho la forza.
E neanche tu ne hai.
Ed allora restiamo ad aspettarci invano.
E pensiamoci.
E ricordami.
E ricordati che ti penso,
che non lo sai ma ti vivo ogni giorno,
che scrivo di te.
E ricordati che cercare e pensare son due cose diverse.
Ed io ti penso
ma non ti cerco.
Anna Bruna Gigliotti
Non è Bukowski
Grazie mille, mio attento lettore, per la sua precisazione. La poesia è di incerta paternità e averlo sottolineato mi spinge ad una maggiore attenzione nelle citazioni. Bisognerebbe che lei lo facesse presente in tutti i canali, tra cui YouTube, che è un errore dare la paternità della poesia a Bukowski. Sarebbe interessante che lei facesse una ricerca per scoprirne il vero autore. Grazie mille per il suo commento. Ogni voce anche dissidente ci aiuta a migliorarci.
Credo di averla trovata, sempre da verificare.
Grazie per la comprensione, buon lavoro.
https://vogliadipoesia.altervista.org/non-ho-smesso-di-pensarti-poesia-attribuita-a-charles-bukowski/