Dicevano che lei in quel contesto, era banale, che poteva entrare nel quadro solo se ne era parte integrante, se l’importanza che assumeva era quella del verbo nella frase altrimenti anche il paesaggio più straordinario sarebbe apparso insulso e scialbo.
Dicevano che doveva essere protagonista e che la sua presenza, anche piccolissima, non doveva mai essere inutile.
Tutto quel quadro doveva appartenerle. Doveva riempire la tela di una storia, e lei, non aveva una storia da raccontare.
Vedeva tutti i colori e le sfumature del ferro e del piombo, il bianco abbagliante della schiuma delle onde mescolato al nero freddo e lucido degli scogli, la luna velata da milioni di gocce frantumate e trasparenti, l’inizio di un sentiero e luci senza dove nascoste tra il verde delle piante.
Sentiva la sua malinconia fondersi con la forza del mare in continuo ed immortale movimento, ma partecipava a tutta l’atmosfera senza essere realmente presente.
Dicevano che una volta entrata nella tela poco importava se non sarebbe stata definita nei particolari o al contrario sapientemente disegnata.
Sarebbe bastata la sua sagoma stagliata nella luce così come nel buio. Poteva anche diventare come l’ ombra cinese che non si può toccare eppure, trasformando una realtà, vive di luce propria.
Dicevano che tutto questo invece, non le spettava. Era solo una comparsa nel meraviglioso mondo del colore.
Decise allora che prima che si spegnessero le luci e la serranda fosse abbassata, sarebbe andata alla ricerca di sé.
Riuscì a scavalcare la cornice e facendo un salto, si adagiò comodamente sulla tesa del cappello dell’ultimo visitatore. Finalmente fuori dalla galleria poteva intraprendere quel viaggio sognato che era rimasto un mero desiderio della sua autrice che le aveva dato la vita, perché aveva sentito dire che il quadro è una porta spalancata su un altro mondo. E lei voleva vederlo.
Dopo un viaggio interminabile dove ogni curva sembrava essere l’ultima e che invece allontanava la meta, una stanca figura solitaria, decise di fermarsi in una caletta di Cefalù.
L’accolsero le luci, tante e colorate. A fare festa, una musica brasiliana mista a tarantelle siciliane.
Dopo avere superato un pergolato di tralci di vite in fiore con i pampini che scendevano a carezzarle il viso e seguita dal profumo misto a salsedine delle zagare splendenti, si trovò davanti una piscina che rifletteva con lampi di luce azzurra, il verde delle foglie di bergamotto.
L’ampio sorriso di una anziana signora vestita di verde, l’accolse al suo tavolo dove su un vassoio, circondata da multicolore insalata, spiccava una grigliata di pesce con trionfo di scampi rosso fuoco.
Per un caso fortuito, era capitata nella serata d’addio agli ospiti che avevano alloggiato la settimana precedente, diventando anche lei, parte di quel saluto, proprio mentre era alla ricerca di ispirazione, con una mente vinta da troppe delusioni e dall’assenza di storie da comunicare.
Ubriaca di luci di suoni e di sapori, si portò verso il filare di basse case bianche. Ciascuna una stanza aperta su una piccola veranda che proseguiva, poggiandosi su un verde prato tagliato di fresco, fin dove la terra si mescolava alla sabbia.
Non lontano, un treno sferragliava velocemente sui binari che spesso in Sicilia, costeggiano il mare, quasi a caricare di maggiore nostalgia chi parte, ma in compenso aprono il cuore di chi arriva, così come era accaduto a lei che il cuore lo aveva ormai annodato da troppo tempo.
Stava per aprire la sua porta quando le arrivò sulla pelle prima ancora che alle orecchie, il suono di vecchie e struggenti canzoni che raccontavano l’amara sorte di un grillo vanamente innamorato della luna riflessa nello stagno e di un innamorato che voleva svegliare la sua bella.
Nessuno poteva vivere se lei dormiva..
-“Lassati stari, non durmiti chiùi,
ca ‘mmenzu ad iddi dintra a ‘sta vanedda
ci sugnu puru iù c’aspettu a vui
pri vidiri ‘ssa facci accussi bedda
passu ccà fora tutti li nuttati
e aspettu sulu quannu v’affacciati
e … vui durmiti ancora..”
Quasi per non disturbare l’emozione dei suoi pensieri affascinati, aprì la porta col minimo rumore. Ancora una volta fu la luce ad attraversare la sua anima. Il giallo e l’arancio disegnavano le ombre di pochi ed essenziali mobili, il letto, il comodino, una cassettiera. Lo specchio duplicava l’immagine e riempiva di morbido colore il piccolo ambiente. Dopo tanto tempo si sentiva protetta, al sicuro, felice, anche se non aveva nessuno che la desiderasse sveglia.
Levò il copriletto, prese i cuscini quasi abbracciandoli e piano piano cullata da quella musica, con la luce e i colori negli occhi ormai chiusi, scivolò nel sonno. Era arrivata alla ricerca di sé, ed aveva trovato la gioia di vivere. Questo bastava per non essere più una comparsa.
Poté quindi tornare e riprendere il suo posto sul pontile, oltre il sentiero, tra le luci senza dove.
Racconto tratto da “Parole su misura” di Nadia Farina –
Nella foto, l’Opera “Allo specchio” di Nadia Farina