Gio. Nov 21st, 2024

Il terrorismo islamista torna a colpire. In poche settimane la Francia è stata attaccata due volte. Prima il professore Samuel Paty, decapitato perché reo di aver utilizzato le vignette di Charlie Hebdo come spunto di riflessione e dibattito in una classe in cui insegnava. Poi Nizza, altri tre morti, due nuovamente decapitati, mentre si trovavano in Chiesa.

In mezzo una campagna internazionale di molti Paesi musulmani contro la Francia e il suo Presidente Macron, che Erdogan, padrone della Turchia, ha saputo furbescamente utilizzare come clava.

In questi giorni si tiene il processo sull’attentato a Charlie Hebdo, il primo di questi episodi in cui nel mirino degli aspiranti martiri per Allah è finita la libertà di espressione, di stampa, di critica e di satira.

Ebbene proprio a partire da questo dato dovremmo aprire una riflessione. Perché la reazione della opinione pubblica occidentale è sorprendente.

Serpeggia, nemmeno tanto sotto tono, una analisi che suona più o meno così: “Questi fatti di sangue sono orribili, ma Charlie Hebdo ha offeso il sentimento religioso di una comunità”.

Questo argomento è declinato in diversi modi da diversi settori del pubblico e della intellighenzia occidentale. E tuttavia contiene una serie di errori, è fallace per diverse ragioni.

In primo luogo, e questo le nostre società l’hanno appreso col tempo e con fatica, la libertà di espressione ci mette alla prova proprio quando un articolo, un saggio, una vignetta, un quadro, una canzone sono ruvidi, disturbanti, destabilizzanti, politicamente scorretti.

Certo è assai facile ritenersi aperti e tolleranti quando l’espressione di un altro si discosti dalla nostra sensibilità in misura ridotta. La sfida imposta dalle democrazie liberali, dal valore della tolleranza, dal principio della laicità è invece esattamente la capacità di rispondere solo sul piano delle opinioni anche a posizioni o espressioni che riteniamo insopportabili.

In secondo luogo, la sensibilità è un termometro assai pericoloso, per misurare ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, in società complesse. Perché oggi può risultare intollerabile, per una certa sensibilità, una vignetta su Maometto (o su Cristo), ma domani si solleveranno questioni intorno all’abbigliamento delle donne, o alla libertà sessuale, o al consumo di alcolici.

In realtà non occorre aspettare l’esito di questo pericoloso clinamen. In molte realtà, in Francia come in Svezia come nel Regno Unito, alcuni quartieri sono già da tempo infestati dalle norme della Sharia.

Di più e ancora: è assolutamente scorretto, almeno per i principi che regolano da oltre due secoli i nostri Paesi, ragionare in termini di comunità. Non esiste una comunità musulmana, come non esiste una comunità cristiana.

Per i nostri Stati esistono individui, cittadini, ciascuno dei quali possiede diritti ed è chiamato a onorare doveri. Dunque trattare i singoli cittadini musulmani come parte di un corpo unico, la comunità musulmana appunto, significa di fatto creare una categoria che nega ai suoi componenti i diritti di cittadinanza. Si trattano quegli individui come incapaci, li si riduce a uno stato di minorità intellettuale.

E si regala ai leader religiosi un potere inaccettabile e sproporzionato.

Come è possibile che di fronte a questa realtà l’opinione pubblica non apra gli occhi? Accade perché alcuni elementi generano confusione.

Si confonde spesso il disagio delle periferie con l’emergere di fenomeni di radicalismo religioso. Si tratta ovviamente di un nesso causa-effetto privo di qualsiasi evidenza. Perché quelle periferie sono composite da un punto di vista religioso, e perché dentro quelle periferie si creano rapporti di potere in cui l’Islam radicale esercita il ruolo di oppressore. Dunque il senso di colpa che muove a ridimensionare o giustificare il fenomeno del fondamentalismo è costruito su basi assolutamente infondate.

Lo stesso vale per il presunto rapporto tra dominio (post/neo)coloniale e radicalismo religioso. L’Islam ha conosciuto nell’ultimo secolo e mezzo la nascita di sue varianti radicali, come salafismo e wahabismo. Proprio la struttura, frammentata e priva di vertice dell’Islam, ha permesso a queste correnti, e agli Stati che le hanno sostenute, di diventare egemoni nel mondo musulmano.

Questo dato dovrebbe gettare un fascio di luce sia sulle nostre analisi riguardo i Paesi a maggioranza musulmana, sia rispetto alle minoranze musulmane nei Paesi europei. Perché ci mostra come, ad esempio nei Paesi del Nord Africa, questa forma di Islam sia diventata prepotentemente oppressiva nei confronti delle altre confessioni religiose.

L’argomento post-colonialismo/radicalismo religioso diventa ancora più debole (per non dire: completamente assurdo) quando si pensi a giovani nati e cresciuti in Europa. Ciò che alimenta, al di qua e al di là del Mediterraneo, questi pericolosi focolai di fondamentalismo è invece un piano preciso, tutto giocato sul piano culturale: un indottrinamento feroce seguito alla occupazione di tutti gli spazi lasciati liberi dalle democrazie europee.

Si tratta dunque di rioccupare quegli spazi.

E chiarire sul piano culturale e sul piano politico che la laicità non è terreno di negoziazione. Perché, come ha scritto Cinzia Sciuto, caporedattrice di MicroMega, nel suo “Non c’è fede che tenga”, “la laicità è…una sorta di condizione trascendentale della democrazia…requisito prepolitico della convivenza civile in una società disomogenea”.

Se questo è il livello a cui si combatte questa battaglia, occorre avere chiari gli strumenti di lotta. Non avere timore di usare la repressione nei confronti di organizzazioni e associazioni che, direttamente o indirettamente, sono parte della rete del fondamentalismo islamico.

Costruire reti di de-radicalizzazione ovunque siano segnalati rischi. Usare tutti i luoghi della formazione e della istruzione per creare un contro-potere culturale in grado di offrire isole di confronto e di educazione alla laicità (anche, dove ciò accade, offrendo scudo ai giovani che si trovano in contesti familiari radicalizzati).

 

È il tempo di agire prima di tutto vigilare. Ma per vigilare occorre prima essere svegli.

 

  Alessandro Porcelluzzi

 

 

 

Sarà consono il lutto

 

 

Insegnano alla gente, insegnano ai popoli,

qualcosa da dire ce l’hanno su tutto,

quando sbagliano però si intestardiscono di brutto,

non riescono neanche scusarsi.

 

Ognuno ne compie di errori e disastri,

ma quando comprende l’intero accaduto,

ripara, se può, a ciò ch’è perduto,

non manda ogni cosa più a rotoli.

 

Chiedeteci scusa per l’ignavia,

chiedete perdono a chi vi ha fatto da cavia,

sarà il vostro imperdibile acuto.

E dopo per anni, sarà consono il lutto.

 

 

 

 

Gianfranco Domizi

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