“Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa…”
Avrete di certo riconosciuta la prima parte della descrizione di Moriana, una de “ Le città invisibili” di Italo Calvino, autore poliedrico, geniale. Tra gli scrittori più amati e apprezzati del Novecento.
Cito alcune sue opere come I sentieri dei nidi di ragno, Il cavaliere inesistente, Il barone rampante, Marcovaldo, Una notte d’inverno un viaggiatore.
Considerato lo scrittore della leggerezza e della semplicità, ebbe la capacità di toccare temi profondi anche attraverso una narrazione a volte divertente, fiabesca e quasi sempre surreale.
Le città invisibili, opera pubblicata nel 1972, fa parte del periodo combinatorio dello scrittore.
Il lettore gioca con l’autore nella ricerca di combinazioni interpretative dell’opera e dello stesso linguaggio.
Evidente l’influenza della semiotica, cioè lo studio dei segni nella comunicazione che ci aiuta a interpretare il messaggio palese o nascosto, quindi coglierne il significato, spesso riconducibile ad uno standard comune. Ciò ci permette di credere reale ciò che è immaginario e viceversa.
Se la Semiotica ci insegna a interpretare, lo Strutturalismo ci aiuta a scomporre. Infatti il Calvino destruttura la sua narrazione in piccoli tasselli che poi si ricollegano in un senso più ampio.
A tal proposito Pier Paolo Pasolini in Descrizioni di descrizioni, del 1979, disse:
“ Nelle Città invisibili il senso è come un’eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso”.
L’opera del Calvino potrebbe essere raccontata in modo scarno e semplice: il veneziano Marco Polo, diventato ambasciatore presso la corte di Kublai Kan, imperatore dei Tartari, gli narra ciò che ha visto durante la sua missione, e gli descrive le città del suo sterminato Impero, che ha visitato.
Marco Polo racconta creando suggestioni attraverso le descrizioni di luoghi irreali.
L’imperatore sa che è così, eppure sottostà alla visionaria narrazione. Lui è consapevole che tutto gli sfugge di mano. Il mondo edificato, voluto magnifico, sta andando in rovina.
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo[…] c’è un momento che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato […] è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo dei sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina…”
Ciò che lo stesso Imperatore sospetta, prende forma reale attraverso la descrizione che Marco Polo fa di una città da lui visitata, Moriana, che è la stessa su citata in apertura del mio articolo, di cui ora riporto la versione completa:
“ Guadato il fiume, valicato il passo, l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana, con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l’uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.”
Eccolo il suo impero dalla duplice faccia. Ecco diremmo, andando oltre, come la stessa realtà può essere interpretata e letta in modo diverso.
Il Calvino ha sempre avuto interesse per il Caos che la caratterizza. Le città di Calvino, narrate attraverso la descrizione immaginifica di Marco Polo, diventano simbolo della complessità caotica della realtà.
Gli uomini costruiscono città, luoghi, carichi di desideri, di memoria, di parole, di oggetti. Tendono fili di legami e appartenenze, che poi lasciano andare alla dimenticanza. Come a Ersilia:
A Ersilia, per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco e neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili. Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che s’innalza nella pianura. È quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente. Riedificano Ersilia altrove. Tessono con i fili una figura simile che vorrebbero più complicata e insieme più regolare dell’altra. Poi l’ abbandonano e trasportano ancora più lontano sé e le case. Così viaggiando nel territorio di Ersilia incontri le rovine delle città abbandonate, senza le mura che non durano, senza le ossa dei morti che il vento fa rotolare: ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma.
E proprio in questo difficile tempo che stiamo vivendo, dove le nostre città si svuotano e s’imprigionano nei loro stessi fili, dove la bellezza si nasconde e viene sopraffatta dai rottami ferruginosi e taglienti della paura, che la voce del Calvino si alza, contemporanea e profetica.
Riporto pertanto la parte che chiude l’opera con le parole di Marco Polo:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Anna Bruna Gigliotti