Funziona sempre così da qualche decennio.
Qualunque evento inceppi la macchina della normale vita collettiva, se ne scarica la responsabilità sui cittadini. I governi, le istituzioni nazionali e sovranazionali, non intervengono più (o quasi più) sul piano della sanzione e della coercizione. Non ne hanno bisogno, perché l’onere delle disgrazie è spostato. Dall’alto verso il basso.
Il processo è tanto semplice quanto raffinato.
Innescando un senso di colpa completamente artificiale, costruito, modellato alla bisogna, si distrae quella che un tempo era l’opinione pubblica dalla critica e dai processi di elaborazione razionale. Valeva per il terrorismo, poi per la crisi economica, oggi per il Coronavirus.
Nel caso del Coronavirus, di questa pandemia, questa dinamica assume forme e modalità macroscopiche e che meritano un approfondimento.
Si bolla qualunque obiezione come negazionistica perché preventivamente è stata creata una macchietta chiamata negazionista, puntando telecamere e microfoni su soggetti folkloristici, bizzarri, stravaganti e poco credibili.
Quei personaggi, con le loro dichiarazioni e/o con i loro atti, diventano una summa di qualunque obiezione, di qualunque critica, di qualunque atteggiamento di dissenso.
Sottoposto al vaglio della logica, questo processo appare completamente fallace.
In primo luogo è evidente come la critica nel confronto di un governo (o del parere di un esponente politico o di un consulente) possa toccare aspetti diversi e non necessariamente coincidenti. In secondo luogo esiste (ma questo sfugge ai censori) la possibilità che qualcuno critichi un atto normativo, ma lo rispetti e inviti a rispettarlo.
Dunque, qualsiasi critico viene trattato come negazionista.
Meriterebbe un approfondimento la scelta lessicale, dato che questo termine è un prestito: con questa parola ci si riferiva fino a poco tempo fa solo a coloro che negavano la verità della Shoah. Questi slittamenti lessicali, queste false analogie tra ogni tipo di critica, sono possibili a causa della paura. La paura è una legittima, anzi: sana, emozione quando essa sia proporzionata a un pericolo, a un rischio reale. Ma diventa un agente terribile, capace di bloccare le normali interazioni intrapsichiche e interpersonali, quando essa diventi la base del discorso pubblico.
Nel clima di paura, che prosegue oramai da mesi, e di cui non si riesce a intravedere la conclusione, da un lato si infilano provvedimenti che tendono a irregimentare alcuni aspetti della vita individuale e collettiva, dall’altro si oscurano scelte e atti che cadranno come bombe sulla sorte soprattutto dei più fragili.
In cambio di un po’ di sicurezza illusoria si cedono quote di libertà e garanzie sociali. E non si batte ciglio.
Nessuno che chieda quanti posti di terapia intensiva siano stati creati durante l’estate: perché la risposta sarebbe agghiacciante. Non solo non sono stati creati nuovi posti di terapia intensiva, ma in molte realtà reparti improvvisati durante l’emergenza sono stati smantellati durante la pausa, nella diffusione del virus, coincidente con l’estate.
Discutere di questo significherebbe tornare a riflettere sulla questione sanità pubblica, sulle scelte operate in questi anni rispetto al sistema sanitario nazionale, sul fallimentare sistema di divisione dei poteri tra Stato e Regioni in questo campo.
Nessuno che osservi e critichi le decisioni dell’INPS. Ciò che emerge dalle comunicazioni di quell’ente può essere riassunto in modo semplicissimo. Mentre i luoghi di lavoro, correttamente e in maniera più che giustificata, guidate dalle norme vecchie e nuove, dagli enti e dalle associazioni di categorie hanno attivato delle procedure e dei protocolli molto severi, l’INPS si prepara a respingere, o ridurre al minimo, ogni forma di integrazione al reddito.
Detto brutalmente: i lavoratori dovranno far ricorso, come prima opzione, a ferie e permessi anche quando costretti (come sospetti positivi casi Covid o sottoposti a quarantena in quanto entrati in contatto con positivi). Di fatto, dopo il commercio, la ristorazione, le strutture ricettive, alla fine della prossima ondata ciò rischia di far saltare tanto lavoro dipendente privato.
Nessuno che veda la contraddizione tra sindaci che chiudono le scuole, una dopo l’altra, in presenza di casi sospetti e un ministero che parla di scuole aperte: solo per citare un esempio, nella mia provincia, una delle più piccole d’Italia (la Bat: 10 comuni, circa 350mila abitanti) in tre settimane di scuola una quindicina di scuole è già stata interessata da chiusure temporanee.
Potrebbe essere un disastro, sicuramente è una difficoltà ulteriore e diversa rispetto a quella affrontata durante il cosiddetto lockdown. Non vediamo nulla di tutto questo, non discutiamo di nulla di tutto questo. Perché ogni volta che ci mostrano i contagi, ci scateniamo contro gli untori (che ovviamente appartengono a una categoria cui noi non apparteniamo).
Banalmente, non siamo più in grado di pensare. Chi non denuncia i responsabili però, denuncia i popoli. A quel popolo abbiamo già tolto le rose. A molti di quel popolo anche il pane. E senza pane e senza rose, siamo inutili, o forse già morti.
Alessandro Porcelluzzi
Dubitando
Avere una guida in fondo ci piace
anche se sono troppe le domande inevase,
“State distanti anche dentro le case,
contagi selvaggi come belve mordaci”.
“Però vorrei dire … però vorrei fare …”,
“Andare di corsa, ma mai passeggiare”.
“Però non capisco, e poi a dirla tutta …”,
“In gruppi di tre per comprare la frutta”.
Lesinarono il pane, volemmo le rose,
adesso siam privi d’abbracci e di baci
siamo in stato di guerra anche in tempi di pace,
il mondo promesso è un mercato di cose.
Gianfranco Domizi