Si fa un gran parlare di razzismo e antirazzismo in questi giorni. Al di là e al di qua dell’Atlantico una dimensione rilevante è stata assunta dall’abbattere o danneggiare statue di personaggi del passato considerati colpevoli di razzismo. Le statue sono simboli: colpendo quelle statue si colpisce per estensione un’epoca storica, un Paese, una cultura, una civiltà, una nazione. È allora importante chiedersi se il razzismo sia un oggetto analizzabile in questi termini: se cioè vi siano collettivi che devono espiare una propensione al razzismo e, ancora, se questa via, quella di colpire i simboli sia una cura adeguata al sintomo.
Anche se chi analizza i fatti dovrebbe tenere a distanza la propria dimensione soggettiva, mi permetto di far riferimento a una esperienza personale. Dal 2014 al 2016 ho lavorato in Arabia Saudita per una azienda di ingegneria.
In azienda eravamo circa 1000 dipendenti, 20 nel mio dipartimento (risorse umane). Su circa 1000 dipendenti (in prevalenza ingegneri e architetti) in totale, gli Italiani erano 30/40 a seconda del periodo. Un quarto dei dipendenti era, per norma (Saudization), Saudita. I circa 700 non italiani e non sauditi erano: Egiziani, Giordani, Pakistani, Indiani, Filippini (le 5 big communities, come erano definiti nei documenti aziendali); e poi sempre meno: Sudanesi, Marocchini, Algerini, Nigeriani, Canadesi, Estoni e qualche altro singolo sparso.
Una delle questioni che più spesso dovevamo gestire come risorse umane erano i conflitti tra ingegneri e architetti da un lato e i loro manager dall’altro. Dietro le apparenti ragioni tecniche spesso si annidavano pregiudizi razzistici.
Per i Giordani gli Egiziani erano imbroglioni, per gli Egiziani i Giordani erano arroganti. Per i Sauditi, Egiziani e Giordani erano Arabi ma di rango inferiore, cugini poveri, un ramo cadetto della famiglia. Per Egiziani e Giordani, d’altro canto, i Sauditi erano ignoranti, poco preparati. Per tutti gli Arabi il Nord Africa non era Africa e quindi si sentivano legittimati ad essere razzisti con neri africani (Sudanesi o Nigeriani). Indiani e pakistani facevano fronte comune giusto il tempo di difendersi dagli attacchi degli arabi, veri o presunti, per poi dividersi in gruppi mono-nazionali un attimo dopo. Ovviamente anche su loro c’erano stereotipi: gli Indiani gran lavoratori ma scarsamente critici, i Pakistani approssimativi ma molto disponibili.
Gli Indiani in azienda erano quasi tutti musulmani per cui la torsione religiosa del razzismo si manifestava verso un’altra grande comunità, non musulmana: i Filippini. I quali erano trattati malissimo dagli Arabi, mal tollerati da Indiani e Pakistani ma adorati dagli Italiani (e da Europei e Occidentali in genere) perché considerati molto educati e dai manager molto obbedienti.
Ovviamente tutti questi erano stereotipi. Pre-giudizi, che come suggerisce la parola stessa sono qualcosa che ci serve a orientarci prima di essere in grado di formulare un giudizio. Un giudizio che è sempre su un individuo: posso formulare un giudizio, io che sono un individuo, su quel determinato individuo, e così accantonare il pre-giudizio che ne avevo inizialmente.
Il razzismo è un pregiudizio ineliminabile, su base collettiva, perché nessun collettivo ne è immune. Anzi: i collettivi ne hanno bisogno per mantenersi come tali. Sono razzisti anche coloro a cui diamo la patente di vittima. Dipende solo da dove si trovano, chi c’è sopra o sotto o accanto a loro. E se questo vale per la presunta vittima vale anche per il presunto carnefice. E questo accade oggi, in una società globale assai più dinamica e interconnessa di quella che le generazioni precedenti alle nostre hanno conosciuto.
Quando poi si discuta di Storia, con la maiuscola, dei suoi protagonisti, qualsiasi schema di ultra semplificazione, qualsiasi chiave di lettura binaria dimostra tutta la propria inefficacia. È dunque persino sciocco immaginare che abbattendo o danneggiando alcune statue possiamo pensare di purificare noi stessi, il nostro Paese, quelli con la pelle del nostro colore o chissà che altro.
È solo l’individuo che può superare il razzismo nei confronti di un altro individuo. È una scelta razionale, un processo morale. Appartiene sempre a un “Io” che arriva alla decisione di accantonare un pre-giudizio su un altro io. E di formulare un gudizio, razionale, sfaccettato, che è possibile sottoporre a critica e argomentazione. Il resto, i riti di catarsi collettiva, le condanne senza appello come le assoluzioni sbrigative, è pura fuffa. Anzi, truffa.
Alessandro Porcelluzzi
LE GRANDI IDEE DEL DOPO CENA
Problemi importanti evaporano in fuffa,
ci credevi davvero?, è soltanto spettacolo,
stasera facciabuco, domani pinnacolo,
e se non c’è più niente da dire, che si fa?,
un po’ di cronaca cruenta, e col dramma ci si azzuffa.
Occorreva un’idea per fregar la quarantena,
c’è il povero Floyd, che in fondo è uno di noi,
beato il progressista a cui non servono eroi,
che poi dell’eroe, passato un po’ di tempo, che si fa? Speriamo che duri comunque almeno a fine cena.
Dopo l’insalata ricompare Ilaria Capua,
dice sempre cose antiche, la pagano in lire,
stappo un altro Negramaro (ma non so se si può dire):
è un rosso che non stinge e se ne resta che si fa?
Dopocena in città … Imbratterò una statua!
Gianfranco Domizi