«Ritiratevi, fate posto
al dio! Perché egli vuole
enorme, retto, turgido,
procedere nel mezzo.»
Questo è un piccolo frammento di un’opera teatrale di Semos di Delo, poeta greco e studioso di antichità, vissuto intorno al 200 a.C. Egli descrive le processioni falloforiche, che si svolgevano nei teatri, a opera di attori chiamati fallofori che avanzavano verso l’orchestra inghirlandati e col viso coperto da una maschera, intonando un canto a Dioniso e sbeffeggiando gli spettatori.
Nel mondo greco classico, le falloforie erano processioni propiziatorie del raccolto, in seguito diffusesi anche nella Roma antica. Le processioni con il fallo terminavano con una pioggia di acqua mista a miele e a succo d’uva. E’ superfluo specificarne il significato simbolico.
Plutarco descrive una di queste processioni:
“ In testa venivano portati un’anfora piana di vino misto a miele e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano il fallo con cui venivano irrigati i campi”
Da ciò si evince quale importanza sacra fosse attribuita al fallo, considerato il simbolo della vita, in quanto generatore del seme e vero simbolo della ζωή (Zoé), la vita indistruttibile.
Retaggi di antichi riti orgiastici propiziatori restano presenti, pur sotto mutate spoglie, in molti territori e ancor oggi in molte feste popolari.
Il culto di Bacco è stato molto praticato in Sardegna. I baccanali , cioè le feste dedicate al dio Bacco o Dioniso, furono pesantemente repressi con l’arrivo del Cristianesimo, ma in verità mai spariti dalla memoria del popolo.
Bacco probabilmente fu sostituito dal santo Bachisio, in sardo Bakis. Nella chiesa dedicata a Santu Bakis, costruita a Bolotana , in provincia di Nuoro, nel 1594, si trovano, in bassorilievo, figure di suonatori e danzatori coi genitali scoperti. Stupisce un Cristo completamente nudo e la presenza di Bacco dal grande faccione, a confermare quanto lo spirito pagano aleggi accanto al sacro.
Il culto fallico in Sardegna è sopravvissuto fino al diciottesimo secolo, quando si ballava intorno ad un fallo di legno o di pietra chiamato bicchiri.
Qualche tempo fa il mio caro amico Carmine, artista eclettico e grande conoscitore di antiche tradizioni della sua terra, la Campania, e soprattutto di Nola, mi raccontava della Festa dei Gigli che si svolge a Nola appunto il 22 giugno di ogni anno. Otto torri danzanti, alte 25 metri, sfilano in processione per le strade della città, trasportate naturalmente a spalla, e simboleggiano le antiche corporazioni delle Arti e dei Mestieri. Tuttavia anche in questa festa popolare il sacro e il profano si mescolano. Sulla sua genesi vi sono opinioni diverse. Si pensa che la festa tragga origine da un rito pagano: grandi alberi dalla forma fallica venivano adornati con simboli vari dal valore protettivo, e venivano portati in processione .
Con l’avvento del Cristianesimo a questi alberi venne tolto il significato pagano, aggiungendo immagini sacre e di santi.
I Gigli vengono trasportati tra il visibilio della folla in un clima di grande eccitazione di massa.
In alcuni punti del percorso volteggiano a 360° su se stessi, ondeggiano, sobbalzano.
Sforzo e fatica vengono ripagati dall’acclamazione popolare, quando al grido di cuoncio cuoncio , lanciato dal capo-paranza, il giglio atterra con un tonfo che fa vibrare la terra e manda in tripudio la folla.
Eppure qualche giorno fa, noi italici, che amiamo e serbiamo in noi le antiche tradizioni e i simboli di cui sono intrise, ci siamo, ahimè, scandalizzati di fronte alla comparsa inaspettata di un pene di marmo, con mascherina, alto circa un metro e dal peso di 200 kg , comparso il 18 maggio in piazza San Marco a Venezia.
In verità di questo evento non si è parlato molto, tranne su qualche giornale locale, ma a me la sua rimozione immediata è sembrata essa stessa sacrilega, negando l’espressione libera dell’Arte di cui la città da sempre, con la sua Biennale, si è fatta portatrice .
Sul marmo della statua sono, anzi erano, presenti scritte a pennarello nero, con riferimento al difficile momento che stiamo vivendo: Fase 2 e Covid 19. La scritta “prostituzione” è provocatoria e vuol far riflettere sulla mercificazione di Venezia a causa dello sfruttamento turistico selvaggio.
Col suo gesto l’autore ha voluto anche polemizzare con i controlli in città che, a causa dell’ insicurezza e della diffidenza, vengono meno, tant’è che il trasporto dell’opera è avvenuto senza intralcio alcuno.
Lo stesso Artista, rimasto anonimo, ha dichiarato all’agenzia Dire :
“ Il pene è un simbolo di vita, Venezia è viva e ha bisogno di vivere.”
E’ un invito a essere duri, a non mollare e a rialzarsi. Anche la mascherina che lo sovrasta assume un significato allegorico:
“Le restrizioni imposte dal coronavirus, la distanza tra le persone, la paura del prossimo che è poi la paura di vivere ”.
E allora che dire di più di ciò che lo stesso Artista ha detto?
Solo augurarsi che vengano giorni migliori. Giorni gloriosi di libera espressione artistica mai più censurabile.
Anna Bruna Gigliotti