Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Chi non riconosce la fonte di questi versi!
Appartengono infatti ai “Canti carnascialeschi” di Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, signore di Firenze, in occasione del Carnevale del 1490. Vennero composti per essere eseguiti con musica e in forma corale durante le feste.
Riconosciamo in essi quel “Carpe diem”, locuzione latina tratta dalle Odi del poeta latino Orazio, ma già concetto fondante della filosofia di Epicuro, traducibile in “afferra il giorno”. Eh sì, perché il nostro Magnifico, spietato e illuminato, era uomo di grande cultura e di profondo ingegno, ma la sapeva lunga su quel “cogli l’attimo”, propizio, che gli permise di afferrare a piene mani ciò che la vita gli offriva. Ora, oggi che del doman…!
Ma perché parlare del Carnevale quando è già passato e soprattutto in questo periodo di quarantena forzata? Per esorcizzare la paura naturalmente e riflettere sul perché, da tempi remoti, si celebrassero queste feste durante le quali le paure, le ingiustizie, le disuguaglianze sociali venivano accantonate in nome del trionfo folle e goliardico della vita.
Per esempio nell’Antico Egitto si celebravano feste in onore della dea Iside durate le quali giravano gruppi mascherati, una consuetudine simile a quella delle feste in onore del dio Dioniso, in Grecia, e dei “Saturnali” romani. Il travestimento permetteva anche un temporaneo “rovesciamento dell’ordine precostituito”. Durante i Saturnali si svolgevano banchetti e feste sfrenate, usando maschere. Ci si scambiavano doni augurali e le distanze sociali erano cancellate: gli schiavi potevano agire da uomini liberi; i padroni servivano gli schiavi; gli uomini si vestivano da donne e le donne da uomini; i poveri si addobbavano come re.
Anche nel Medioevo il Carnevale, da “carnem levare” cioè privarsi della carne perché precedeva la Quaresima, per cui era l’ultima occasione per darsi ai bagordi e godere della vita, si celebrava
“il mondo alla rovescia “e persino nelle chiese si svolgevano buffe rappresentazioni con travestimenti. Ma è nel Rinascimento che il Carnevale raggiunse la massima espressione di sfarzo e divertimento. Nelle città di Firenze, Mantova, Milano, Roma, Ferrara, Bologna, i Signori facevano a gara per organizzare le sfilate più belle con carri allegorici che rappresentavano vizi e virtù, scene mitologiche della Grecia antica e di Roma delle origini.
Ancora oggi, in Italia, anche se a parer mio con intento poco esorcizzante e troppo consumistico, il Carnevale viene festeggiato per la gioia soprattutto dei bambini. Quelli di Venezia, Viareggio, Cento, Acireale, Putignano, Verona, per citarne alcuni, sono tra i più festosi e fastosi.
Ma, tornando a Firenze al tempo del Magnifico, il Carnevale aveva come attori il popolo tutto che vi partecipava alla grande e si sentiva per un po’ il signore della sua città.
Il Carnevale diventava esso stesso un’allegoria, quasi un non-luogo, per intenderci, dove libertà e ricerca del piacere si prendevano gioco della morale del tempo, anche attraverso canti che inneggiavano alla pura esaltazione della sessualità come spinta potente e vitale.
Ed ecco alcune strofe tratte dai Canti Carnascialeschi, a dimostrazione di quanto forte fosse la straordinaria pulsione sessuale dell’uomo. Di quanta energia festosa ed esaltante ci fosse nel gioco dell’Eros.
Canzona de’ profumi.
Siam galanti di Valenza
qui per passo capitati,
d’amor giá presi e legati
delle donne di Fiorenza.
Molto son gentili e belle
donne nella terra nostra:
voi vincete d’assai quelle,
come il viso di fuor mostra;
questa gran bellezza vostra
con amore accompagnate;
se non siete innamorate,
e’ saria meglio esser senza.
Quanto è una buona spanna
vaselletti lunghi abbiamo;
se dicessi: — Altri v’inganna, —
noi ve li porremo in mano:
ritti al luogo li mettiamo;
nella punta acceso è il foco,
onde sparge a poco a poco
dolce odor, che ha gran potenza.
Canzona dello zibetto.
Donne, quest’è un animal perfetto
a molte cose, e chiamasi ’l zibetto.
E’ vien da lungi, d’un paese strano;
sta dov’è gemizion over pantano,
in luoghi bassi, e chi ’l tocca con mano,
rade volte ne suole uscir poi netto.
Carne sanz’osso sol gli paion buone,
ma vuolne spesso e, se può, gran boccone;
poi duo dita di sotto al codrione,
come udirete, si cava il zibetto.
Hassi una tenta, ch’è un terzo lunga,
spuntata acciò che drento non lo punga.
Caccisi drento, e convien tutta s’unga,
o donne, e’ vi parrá dolce diletto.
Canzona degli innestatori.
Donne, noi siam maestri d’innestare;
in ogni modo lo sappiam ben fare.
Se volete imparar questa nostr’arte,
noi ve la mostreremo a parte a parte,
e’ non bisogna molti studi o carte:
le cose naturali ognun sa fare.
L’arbor che innesti fa’ sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi, schietto;
dilicato di buccia, bello e netto,
quando comincia a muovere e gittare.
Segalo poi e fa’ pel mezzo un fesso:
la mazza in ordin sia un terzo o presso;
stretto quanto tu pòi ve lo arai messo,
purché la buccia non facci scoppiare.
Cosí quanto si può drento si pigne,
con un buon salcio poi si lega e cigne,
e l’una buccia con l’altra si strigne,
cosí gli umor si posson mescolare.
Canzona di Bacco.
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arianna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
In un tempo passato in cui Eros e Thanatos condividevano gli stessi luoghi e respiravano la medesima aria, il godere dell’attimo di certo si faceva più urgente e a volte non rimandabile al domani. Oggi forse si tende a rimandare troppo ad altre occasioni, forse, chissà più allettanti e ci si perde e sperde in questa liquida società che vive ahimè nel “dopo”, saltando l’ “ora”.
Anna Bruna Gigliotti