Andare al Museo Diocesano Carlo Martini, a Milano, per me è un obbligo quando si tratta di rivedere L’Adorazione dei Magi di Artemisia Gentileschi, nata a Roma nel 1594, una delle più grandi pittrici del Seicento.
È la prima volta che l’opera viene esposta a Milano. Essa fa parte di un ciclo decorativo realizzato per la Cattedrale di Pozzuoli fra il 1636 e il 1637, il periodo napoletano dell’artista, ed è proprio a Pozzuoli che io la vidi per la prima volta. E’ inutile dire che ne rimasi incantata allora, qualche anno fa, come ora che è in esposizione nel capoluogo lombardo.
Resto davanti all’Opera quasi in estasi. Molto evidente l’influenza caravaggesca nella scelta cromatica dei toni marroni, rossi, blu e gialli, e nella cura minuziosa dei dettagli. Mi soffermo ad osservare ammirata l’oggetto in argento, per terra, ai piedi della Vergine, dono del re mago, in ginocchio davanti al Bambino, i drappeggi delle vesti, gli sguardi dei personaggi che esprimono dolcezza e stupore. E poi quel gioco di luce e ombra che crea un effetto scenografico di grande potenza evocativa.
Il mio occhio si posa sulla parte superiore del dipinto, dove i segni dell’incendio del 1964 nella Cattedrale di Pozzuoli sono ahimè irrimediabilmente evidenti: il volto del mago moro sembra dissolversi nella tela.
Non è il primo quadro della Gentileschi che io vedo a Milano, infatti anni fa era stata allestita una mostra tutta dedicata a questa grande artista. Cinquanta opere in esposizione e molti documenti che la riguardavano. Tra gli obiettivi della rassegna milanese, c’era quello di restituire ad Artemisia il posto che ebbe nella grande pittura del suo tempo e approfondire le vicende della sua vita.
Da allora iniziai ad interessarmi a questa artista che per molto tempo fu in qualche modo trascurata.
Ci vollero infatti tre secoli per fare riaffiorare il suo incontestabile valore.
Di lei nel 1916 Roberto Longhi, uno dei maggiori storici e critici d’Arte del Novecento, scrisse: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, colore e impasto, e simili essenzialità…”
Ma fino al secondo dopoguerra venne ricordata più per il processo di deflorazione che per i suoi meriti pittorici. Il processo era stato intentato contro Agostino Tassi, dopo la denuncia del padre di Artemisia, Orazio Gentileschi, grande pittore e suo stesso maestro, e terminato con la condanna del Tassi, mai in verità scontata, ma che costò cara alla ragazza, sottoposta a tortura per dimostrare la sua innocenza e alla fine costretta a sposare un uomo che non amava, Pierantonio Stiattesi, per cancellare, agli occhi della gente, la “colpa” di essere stata violentata. Ma è anche vero che l’incolpato testimoniò che Artemisia si lamentava con lui della morbosità del padre, che addirittura la “trattava come la moglie”.
E a tal proposito uno dei più famosi quadri di Artemisia, “Susanna e i Vecchioni” sottende un significato preciso. La fanciulla è nuda e si ritrae per non sentire quello che due personaggi ,uno giovane e bruno, l’altro dai capelli grigi, si sussurrano all’orecchio.
Altri tempi, è vero, ma che ahimè ancora oggi bruciano!
Nei primi anni Sessanta le vicende della sua vita avventurosa e libera sono state oggetto di studi ed interpretazioni da parte della critica femminista: Artemisia diveniva un simbolo di coraggio ed emancipazione, ma la sua pittura, ammirata sin dal Seicento e ricercata dai potenti di tutta Europa, era messa ancora in secondo piano.
Il tempo però le ha dato giustizia e le mostre a lei sempre più dedicate hanno fatto emergere non solo la sua grande forza pittorica ma anche la sua grande personalità. Potere, arte e passione hanno contraddistinto la vita di Artemisia Gentileschi. Utilizzando le armi del proprio carisma e delle proprie qualità artistiche contro i pregiudizi che si esprimevano nei confronti delle donne pittrici, riuscì a inserirsi produttivamente nella cerchia dei pittori più reputati del suo tempo.
Fuggita da Roma a Firenze per debiti, nel 1613, iniziò a brillare per le sue doti artistiche che le procurarono attenzioni e importanti commissioni da parte di illustri personaggi della corte fiorentina e intellettuali quali Michelangelo Buonarroti il giovane e Galileo Galilei.
Poi di nuovo a Roma, in Inghilterra dal padre, e alla fine a Napoli dove fu a capo di una famosa e attiva bottega formata da giovani di eccezionale talento.
Sulle sue tele la mano che dipingeva spesso era anche quella che feriva e vendicava le gravi offese ricevute e come lei stesso disse:
“Sulla tela vendicherò il mio stupro. Datemi un esercito, che voglio combattere;[…] Ero in mezzo a due fazioni di luride canaglie e ho pagato per tutti quei miseri uomini che si sono affrontati sul mio corpo non avendo il fegato di sfidarsi apertamente fra loro. Ora vi sfido. Mi farò vendetta con la pittura, dipingerò quadri potenti come nemmeno ho visto fare a Caravaggio quando frequentava mio padre. La conosco la sua Giuditta che taglia la testa a Oloferne: l’ho rifatto uguale il movimento delle braccia, ma la mia eroina non ha quell’espressione schifata nel momento di far zampillare la vena giugulare né tira indietro il busto per paura di sporcarsi l’abito. Io affonderò la mia spada con voluttà. Dove siete, pittorucoli? Io posso uccidere e sgozzare il più grande dei vostri campioni con le vostre stesse armi che considerate maschili.”
La cosa strabiliante è che di questa straordinaria donna si conoscono molti segreti, grazie alle ventuno lettere trovate nell’Archivio dei marchesi Frescobaldi a Firenze da Francesco Solinas , grande ricercatore e conoscitore del Seicento, raccolte ora in un suo libro “Lettere di Artemisia”, le uniche interamente autografe della pittrice in una prosa scorretta ma profonda, sgrammaticata, essendo autodidatta, ma colta, che cita Petrarca e l’Ariosto, Ovidio, le Rime di Michelangelo, e il Tasso.
Dalla lettura del suo carteggio si evince una personalità piena di passione, intelligenza, ambizione.
A volte la sua naturalezza battagliera che nei riguardi di una dama fiorentina che l’aveva accusata di furto in casa del suo amante, le fa dire “Arcinfamissima, ruffiana, strega, maliarda! Puttana .”, ci diverte e stupisce. Durante la sua residenza a Firenze, dove fu ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno (prima donna a godere di tale privilegio) Artemisia visse una passione sconvolgente, dal desiderio “lascivo e lussurioso” per il gentiluomo fiorentino Francesco Maria Maringhi, amplificato dalla lontananza dell’amante a causa dei suoi continui spostamenti. Ricatti, gelosie, imbrogli e debiti sempre da saldare, s’intrecciano nelle lettere con promesse d’amore e dichiarazioni di fedeltà da parte della pittrice, che visse sempre al di sopra delle proprie possibilità, nell’estenuante bisogno di affermare il suo stato di Signora.
I due amanti saranno dalla sua stessa mano immortalati nella magnifica opera “ Autoritratto allo specchio con l’effigie di un cavaliere”. (Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini.)
Voglio terminare questo mio articolo con uno stralcio tratto da una sua lettera al Maringhi che fino alla fine le starà accanto “finchè durerà avere fiato”:
«Mio carissimo core […] io vorrei che voi veniste qui quanto prima. […] Core, io o ricevuto da Vostra Signoria una di quelle che son il refrigerio che mi fanno ritornare da morte a vita, che se vi fusse noto la legreza che io sento, io credo certo che se vero che mi volliate bene voi parareste di alegreza […] sapete puro che so vostra sin’a che durarò avere fiato. Io no mi strugo se non di non vedervi appresso»
Anna Bruna Gigliotti