Alda Merini, poetessa milanese, nasce nel capoluogo lombardo il 21 marzo 1931 e come dirà in una sua celebre poesia:
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Mai altra sua poesia racchiude in sé tanta consapevolezza della sua follia, tanto dolore, ma anche tanta voglia di rigenerazione, di lotta, di speranza.
Alda Merini fu una grande poetessa, una delle più grandi, proprio perché cercò per tutta la vita i confini della sua anima.
Ma, come diceva Eraclito, filosofo greco vissuto a Efeso tra il IV e il V secolo a.C., in un suo frammento: “Per quanto tu cammini per ogni via i confini dell’anima non li troverai”
Il mondo greco antico si esprimeva sulla follia con questi termini:
Enthysiasmos di cui gode il poeta “posseduto” dalle Muse.
Mania è il termine che corrisponde con più pertinenza alla nostra follia: presenta la stessa radice di menos, che indica il coraggio, la forza vitale, ma anche la furia rabbiosa.
Ekstasis segnala un turbamento talmente intenso da coincidere con il delirio.
Lyssa, la condizione allucinatoria e furente in cui si precipita quando interviene l’omonima e terribile dea Lyssa.
Ma a differenza di quanto sarebbe accaduto nella società moderna, la Grecia non conobbe la reclusione dei folli, a cui fu condannata, ahimè tante volte, la nostra poetessa, ma seppero convivere con loro, attraverso forme di controllo. Reintegrazione e non esclusione.
I Greci definivano estasi quello stato in cui un uomo percepisce di avere «un dio dentro di sé»,
Io credo che mai nessuna donna abbia percepito quell’afflato divino più della nostra Alda Merini.
Oggi nel decimo anno dalla sua scomparsa, avvenuta il 1 novembre del 2009, io voglio celebrarla con un racconto della mia carissima amica Alessandra Tirelli che, da sempre innamorata della Poetessa, è riuscita a incontrarla nella sua casa. Dal suo scritto emerge una figura di donna fragile ma nello stesso tempo forte, umanissima, anticonvenzionale. Innamorata della vita. Lo riporto in modo integrale:
Ricordo di Alda Merini di Alessandra Tirelli.
Il mio interesse per Alda Merini nasce dopo la sua apparizione televisiva al “ Maurizio Costanzo show” nei lontani anni 80. Era allora in polemica con il comune di Milano che minacciava di sfrattarla dalla sua casa sui navigli perché inadempiente.
Ricordo l’animosità con cui portava avanti le sue argomentazioni e l’amarezza nel constatare la poca sensibilità dell’amministrazione della città, che tanto amava, nei confronti dei suoi artisti.
Parlava delle sue vicende personali, con lucidità e distacco, come si trattasse della vita di altri e per questo risultava più precisa e incisiva.
Per la prima volta ho conosciuto la realtà degli istituti psichiatrici, ( manicomi come lei usava dire con una certa crudezza ) attraverso la testimonianza di chi questa realtà l’aveva vissuta.
Da allora non l’ho più lasciata e ho seguito la sua ascesa e il riconoscimento generale del suo talento poetico, non più limitato ad un pubblico di nicchia come nel passato: miracoli della televisione !
Sono stata sua assidua lettrice, ne ho ammirato la forza e la lucidità espressiva come la capacità di scandagliare le pieghe più nascoste dell’animo e la sensibilità di valorizzare e cogliere gli aspetti più semplici della vita.
Il suo mondo mi ha sempre incuriosito ed emozionato e spesso ho pensato che mi sarebbe piaciuto conoscerla.
L’incontro con una persona speciale, Madre Silvana Bettinelli, una suora canossiana di cui sono diventata amica carissima, mi ha permesso di esaudire questo desiderio.
Parlando di poesia, ci siamo ritrovate amanti della Merini, che lei conosceva e con cui aveva stretto un rapporto di amicizia.
L’invito ad andarla a trovare è stato accolto da me con entusiasmo, anche se accompagnato da un certo timore.
La sua casa, affacciata sul Naviglio Grande, cuore pulsante della vecchia Milano, è una costruzione popolare di cui Alda occupava il primo piano.
Mentre salivamo le scale, pensavo che non avrebbe potuto vivere in altro luogo diverso da quello. Davanti alla porta d’ingresso il cuore mi batteva per l’emozione, per la paura di non sapere come comportarmi, come uscire dal mio imbarazzo e non risultare banale.
Ci venne ad aprire una ragazza che il comune mandava periodicamente per occuparsi della casa; disse che la signora si era alzata da poco e che ci aspettava in soggiorno. Regnava un simpatico e generale disordine che ebbe il potere di tranquillizzarmi così da rispondere con sincerità al modo affabile e informale con cui venimmo accolte. Ci invitò a sedere, anche se con difficoltà riuscimmo a trovare due sedie libere. In quella casa tutto era occupato. Il tavolo troneggiava, completamente ricoperto da qualsiasi cosa: vasi con fiori secchi, libri, oggetti di ogni tipo, avanzi di cibo e mozziconi di sigarette che accendeva e spegneva in continuazione. Le pareti, me ne ricordo una in particolare, gialla, erano completamente ricoperte da scritte e numeri telefonici.
Ben visibile un pianoforte con uno spartito aperto. Era la sua casa, era Lei.
Il suo aspetto appariva trasandato, indossava una leggera vestaglia da camera sotto cui si
intravedeva una canottiera di lana di vecchia fattura, ma, nonostante questo, dalla sua figura emanava una qualche forza e fierezza che davano dignità a tutto ciò che la circondava.
Mi tolse subito dall’imbarazzo e mi si rivolse come se ci fossimo già conosciute, con semplicità e calore. Lei parlava e io ascoltavo rapita. Le avevo portato in regalo un rossetto. Aprì subito la confezione e se lo spalmò sulle labbra senza usare lo specchietto: le sbavature intorno alla bocca le conferivano un aspetto un po’ clownesco ma non ridicolo. Si scusava per la presenza della ragazza che andava avanti e indietro cercando, non so come, di mettere ordine in quel marasma, ripetendo che quando “ riceveva “ non voleva essere disturbata; lo aveva fatto presente, ma nessuno aveva dimostrato di capire questa sua necessità.
La ragazza, finito il lavoro, venne a salutare e la Merini, con gesto spontaneo, infilò una
mano nel reggiseno e ne trasse alcune banconote che la giovane rifiutò, essendo già stata pagata da comune. Quel gesto, non certo signorile, non risultò volgare ma semplicemente frutto di atteggiamenti curiosi e anticonformisti.
Trascorremmo un’ora piacevolissima come tra vecchie conoscenze. Senza filtri ed imbarazzi.
La salutammo con la promessa di rivederci presto e ci lasciò in regalo un ritratto a carboncino di papa Woitila che ammirava tantissimo.
Uscii da quella casa a cuor leggero e con la consapevolezza di aver ottenuto un regalo prezioso che arricchiva la mia vita.
Voglio terminare il mio, anzi nostro, articolo sulla Merini con le sue stesse parole:
“Anche se la finestra è la stessa, non tutti vedono le stesse cose.
La veduta dipende dallo SGUARDO”
Anna Bruna Gigliotti