Come ci hanno spesso rivelato innumerevoli pensatori di diverse discipline, l’era in cui ci troviamo oggi è quella della tecnica. Comunemente la tecnica viene ritenuta l’insieme di mezzi e di strumenti che l’uomo ha a disposizione per raggiungere il massimo scopo col minore sforzo possibile. Essa si serve anche dalla tecnologia e si estrinseca con la forma più alta di razionalità mai raggiunta dall’uomo.
Se oggi improvvisamente dovesse venir meno la tecnica, gli unici popoli che avrebbero sopravvivenza certa sarebbero quelli delle tribù che da sempre rifiutano ogni forma di contatto con la società civile. Noi, grazie alla tecnica, riusciamo a prevenire patologie mortali (le analisi di routine servono a questo), a generare la prole ove la natura da sola non riuscirebbe, a condividere emozioni con persone che vivono dall’altra parte del pianeta; tuttavia la tecnica, per quanto paradossale possa sembrare, pur essendo nata per migliorare le condizioni di vita umana, è completamente indifferente sia alle umane passioni, sia alle più ragionevoli argomentazioni indipendentemente del fatto che possano riguardare i singoli individui o l’intera collettività.
Ma la tecnica migliora veramente la qualità della vita umana? E la sua presenza incide realmente in modo positivo sul mondo del lavoro? Probabilmente, se la prima domanda venisse formulata a quei popoli che si ostinano a vivere lontani dalla civiltà, essi darebbero una risposta diversa dalla mia, in ogni caso io penso di sì!
La tecnica migliora la qualità della vita fin quando però viene ritenuta uno strumento messo a disposizione dell’uomo o meglio del suo buon senso, ma nel momento in cui da mezzo rischia di divenire il fine, allora può diventare qualcosa di veramente deleterio.
Per quanto concerne la seconda domanda, invece, e cioè quella relativa all’importanza della tecnica nel mondo del lavoro, mi sento di rispondere a ciò che penso in relazione al mio lavoro come tecnico del Welfare. La mia formazione professionale (ma anche culturale) è fondata sull’ermeneutica relazionale. In altri termini (nonostante oggi si tenda ad anteporre la tecnica al buon senso) sono fermamente convinto che l’unico modo per far bene in tutti quei mestieri (come l’educatore, lo psicologo, l’insegnante e tanti altri) che rientrano nella branca della formazione e del miglioramento del sé, la tecnica debba essere complementare all’empatia e all’ermeneutica dei fatti.
Posporre il buon senso a schede, protocolli, o a teorie accettate per partito preso (o meglio per interessi personali di chi dirige), può avere come risultato finale solo una degenerazione deontologica.
Facciamo un esempio esasperato. Se una persona è in palese arresto cardiaco, se non si vuole che lui muoia, bisogna intervenire immediatamente. Fare le analisi strumentali e attendere una diagnosi prima di intervenire, potrebbe risultare fatale. Certo, le analisi strumentali ci daranno in seguito l’entità e la specificità della patologia, ma l’applicazione “tecnica” delle procedure standard di prassi, sarebbe una mera follia.
In un prossimo articolo divulgherò il mio pensiero in merito all’uso e all’abuso della tecnica nel mondo dell’istruzione, dell’educazione e del welfare, e quali, a mio avviso, sono le motivazioni per cui anche nelle materie umanistiche la tecnica guadagna sempre più terreno a discapito del buon senso. Le riserve in merito all’uso eccessivo e sconsiderato della tecnica e il suo relativo rischio incidere in modo irreversibile sulla natura delle cose, non è una preoccupazione che viene vissuta solo del sottoscritto, ma già da tempo è stata espressa da tanti pensatori, dalla Scuola di Francoforte, a Arnold Gehlen, da Umberto Galimberti a Martin Heidegger e tanti altri pensatori. A proposito di Heidegger, in attesa di un mio prossimo pezzo su questo tema, credo non ci sia modo migliore di “concedarmi” attraverso una sua frase nella speranza che la stessa possa fungere da piccolo spunto di riflessione:
“Inquietante non è il fatto che il mondo possa trasformarsi in un unico enorme apparato tecnico, ma che l’umanità non è preparata a questa radicale trasformazione del mondo ”
Antimo Pappadia