“Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile.”
Queste le parole tratte da “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa, il poeta più emblematico dell’intero novecento.
In questa inquietudine io ho ritrovato la mia stessa inquietudine quando ho varcato per la prima volta la soglia della Casa Circondariale Nerio Fischione ( ex Canton Mombello) di Brescia, per partecipare alle prove, in qualità di attrice, per la messa in scena della peace teatrale “Hotel Solitude”. Ho avuto come compagni di lavoro alcuni detenuti dell’Istituto e due attori, Daniela Dante ed Enrico Bolzoni, con cui avevo già lavorato in altre occasioni. Ci ha diretti la regista Milena Bosetti coadiuvata da un instancabile Salvatore di Pace.
Inquietudine si coniuga con preoccupazione di non saper gestire “quell’altro da me” che sentiamo diverso, estraneo al mio mondo, eppure intimamente, profondamente simile in quel desiderio di percepire le nostre singole “solitudini” come strumento rigenerante per ciascuno di noi.
E’ questo in verità il senso di tutto lo spettacolo, il cui canovaccio è nato dalla collaborazione creativa di alcuni scrittori quali Fouad Lakehal, Anna Bruna Gigliotti, Andrea Marini, Lucia Marchitto, Daniela Dante, Milena Bosetti.
La mia stessa solitudine si è confrontata non solo con quella del personaggio che ho rappresentato, una donna sposata che aveva smarrito i suoi sogni giovanili e si trovava a ripetere gesti quotidiani nell’indifferenza di figli e marito, ma con le singole solitudini di ogni attore e dei personaggi che rappresentavano: una senzatetto alcolizzata straziata dal ricordo dei figli, un extracomunitario sradicato dalle proprie radici e condannato alla estraneità, un vedovo prigioniero dei ricordi, un giovane alienato e incapace di una reale interazione col mondo esterno.
Se a questo si aggiunge “la solitudine affollata”, come la chiama Pessoa , a cui spesso siamo condannati, ma a maggior ragione chi si trova in una situazione di privazione di libertà, costretto a un isolamento forzato o ad una condivisione spesso difficile di spazi, ecco che cercare una via di catarsi diventa addirittura di vitale importanza. Il teatro è catarsi.
Questo laboratorio teatrale, nato dalla collaborazione tra il gruppo Teatro Tracce e L’Associazione Fiducia e Libertà, si è concluso il 17 giugno con una rappresentazione nella Sala Teatro della Casa Circondariale Nerio Fischione e per noi tutti è stata un’esperienza unica e arricchente. Profondamente umana.
“ Durante la preparazione dello spettacolo, e una volta sul palco, abbiamo dimenticato di essere in carcere. Ci siamo sentiti altrove. Liberi”
Così si sono espressi al microfono Georgel e Mario, alla fine dello spettacolo, davanti ad una platea entusiasta, interpretando il pensiero di tutti loro “reclusi”, Redouane, Luca, Gaetano, Gagandeep, ma anche di noi altri ,“in libertà”, ma che sentiamo a volte il desiderio di un nostro personale“altrove”.
“Non è stato facile lavorare in una Casa Circondariale perché gli attori detenuti possono spesso cambiare.” ha detto la stessa regista .“ La fatica e l’impegno però ci ha ripagati. Da tempo l’attività teatrale in carcere ha dimostrato la sua efficacia, in quanto l’esperienza di gruppo consente di sperimentare ruoli e situazioni diverse da quelle della detenzione, creando un clima di partecipazione condivisa .
“Del resto” ha aggiunto la Bosetti, “ Siamo anime di diversi vissuti , che come note di diverso colore, collaborano per dar vita all’armonia di un concerto, come si evince dalla seconda parte dello spettacolo, quando i personaggi, sotto la guida di una figura salvifica, una sorta di autocoscienza artistica che si manifesta nei sogni, si sono trovati a ribaltare la prospettiva e a vedere la propria solitudine fiorire in una specie di visione onirica in un divenire creativo che li ha portati a toccare l’anima del mondo per poi condividerla”
E , a proposito di “Solitudine creativa”, come non riportare le parole intense, indelebili e significative, del teologo e pedagogista brasiliano Rubem Alves :
«Nella solitudine si contempla la nascita di nuovi mondi. Le montagne, le foreste, i mari: scenari dell’anima. C’è in essi una grande solitudine. E la solitudine è dolorosa. Ma c’è anche una grande bellezza, perché è solo nella solitudine che esiste la possibilità di comunione. Così non avere paura: ‘fuggi dentro la tua solitudine. Sii come un albero che ama con i suoi lunghi rami: silenziosamente ascoltando; essa rimane appesa sopra il mare».
Vorrei terminare questo mio articolo con la poesia “Solitudine” della grande poetessa Emily Dickinson. Con questi stessi versi si è conclusa la peace teatrale:
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
Anna Bruna Gigliotti