Gio. Nov 21st, 2024

Thomas Hobbes nel suo libro “Leviatano“, pubblicato in Inglese nel 1651, scriveva: “Gli uomini, nella loro condizione naturale, sono tutti uguali: anche nel momento in cui ciascuno pensa di essere almeno più saggio degli altri”.

Tuttavia il pensiero di Hobbes, per quanto possa apparire di buon senso, non trova sempre tutti d’accordo, non tanto nella teoria (molto è stato scritto e detto nel corso dei secoli sull’uguaglianza, da Crizia di Atene a Umberto Eco, da Trasimaco di Calcedonia a Oriana Fallaci), ma soprattutto nella pratica. Nella vita comune, ad esempio, è sufficiente osservare il linguaggio di una qualsiasi persona (sia quello verbale, sia quello del corpo), per notare che la maggioranza di noi modifica sempre le proprie modalità di approccio con gli altri in base al livello socio-economico e/o di potere a cui appartiene il suo interlocutore. Pertanto, è sufficiente guardarsi intorno per comprendere che “l’uguaglianza di una condizione naturale” di cui parla Hobbes, resta un vero miraggio.

Purtroppo non solo le semplici interazioni sociali, ma anche tematiche ben più importati e drammatiche non fanno eccezione a questa tragica regola generale. Basti riflettere sul fatto che, in quei Paesi in cui è prevista la pena capitale, tutti i condannati che finiscono nel braccio della morte appartengono sempre ai ceti sociali meno abbienti e che in ogni società, quando due individui in condizioni socio-economicamente differenti commettono gli stessi errori, è sempre il cittadino più debole a rimetterci maggiormente.

Ma allora aveva torto Hobbes quando diceva che gli uomini sono tutti uguali? Oppure le persone sono effettivamente diverse e pertanto vanno trattate in modo differente? E se fosse così, cosa dovrebbe veramente distinguere gli uni dagli altri? Secondo natura, ovviamente, noi esseri umani siamo tutti uguali! Qualsiasi persona merita di essere trattata dai propri simili con la stessa dignità e il medesimo rispetto umano, dal primo all’ultimo giorno di vita e, soprattutto nessuno dovrebbe mai fare distinzioni pregiudiziali fondate su preconcetti infondati come ad esempio il colore della pelle, la provenienza geografica o la religione di appartenenza. Detto questo, una nota di approfondimento resta d’obbligo. Pur essendo le persone secondo natura tutte uguali, nel tempo si sono moralmente “affermati” alcuni criteri che potrebbero influenzare la considerazione sociale delle persone stesse tra questi ricordiamo:

1) i buoni sentimenti, cioè le motivazioni che spingono i singoli individui a compiere le loro azioni;

2) l’impegno disinteressato profuso a favore di una comunità;

3) l’insieme delle cognizioni che possiedono. Con quest’ultimo elemento si intende lo strumento culturale che ogni individuo possiede e che ha poco a che vedere col conseguimento dei titoli accademici, ma nasce e si alimenta dalla cultura della conoscenza generale delle cose.

Quella stessa conoscenza che, oltre a indurre le persone alla COMPRENSIONE dei fatti, le predispone anche alla più elevata forma di saggezza. Per dirla alla Gadamer, l’ermeneutica (cioè l’interpretazione consapevole dei dati oggettivi), è una condizione indispensabile per affrontare e risolvere qualsiasi problema posto dall’umanità.

A chi fosse persuaso di possedere i principi che dovrebbero indurre le  persone ad avere di sé una maggiore considerazione sociale rispetto ad altre, suggerisco di non esserne troppo convinto e lo invito a rileggere la riflessione inziale di questo articolo, cioè quella Massima che ci ha indotto a elaborare le successive riflessioni.

Ecco quindi riproposta la famosa frase di Thomas Hobbes: “Gli uomini, nella loro condizione naturale, sono tutti uguali: anche nel

momento in cui ciascuno pensa di essere almeno più saggio degli altri”.

Antimo Pappadia

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