Così si espresse Charles Laughton, attore e regista britannico, premio Oscar nel 1957 quale miglior attore protagonista nell’indimenticabile “ Testimone d’accusa” di Billy Wilder .
E, a proposito di testimone, posso vantarmi di esserlo stata io stessa ieri sera a teatro e di un episodio che mi ha lasciata di stucco. Ho usato “vantarmi” perché così posso raccontare senza dubitarne io stessa e riflettere sulla libertà di espressione tanto cara a chi “pratica Arte”, o almeno ci prova. Ebbene, come dicevo, ieri sera a teatro ero estasiata nell’ascoltare la performance di una Francesca Garioni illuminata che, su una sedia a rotelle, ha dato voce alla rabbia e al dolore di una donna ormai al traguardo della sua lunga vita. “ Vecchiaccia” il titolo del monologo e del racconto di Stefano Benni recitato integralmente dall’attrice.
Confesso che ogni parola detta arrivava dritta alla pancia come un pugno e i ricordi della vecchiaccia transitavano a briglia sciolta ingarbugliando i fili della memoria fino a riportarla al presente e alla consapevolezza amara di essere ormai una vecchia abbandonata e senza speranza.
“E allora?” chiederete “Dove sta il problema?”
Di certo dalle mie precedenti parole si è capito che in qualche modo ero sdegnata per qualcosa e che avrei desiderato parlarne. Aggiungo che solo così, insieme, si può cercare di non farsi sopraffare dai benpensanti, dai falsi moralisti, dai censori perbenisti.
Insomma per farla breve, alla fine della performance, uno scroscio di applausi stava omaggiando la Garioni, che, in piedi davanti al pubblico, ringraziava con un sorriso un po’ schivo ma grato, quando dal fondo della sala si è alzata una voce solista, una voce di accusa:
“ Vorrei chiedere all’attrice di togliere le bestemmie dal monologo”.
Alla risposta un po’ stupita della Garioni che ha detto garbatamente di aver recitato un testo nella sua stesura originaria e di aver espresso la rabbia e il dolore di una donna, l’uomo ha replicato con voce stentorea che l’attrice ha facoltà di tagliare e modificare le battute, per cui avrebbe dovuto farlo.
L’accusatore non ha più ricevuto attenzioni, né avuto seguito, per fortuna, solo una sana indifferenza che è poi precipitata nella dimenticanza.
Tuttavia una traccia resta. Il giudizio negativo, pur non autorevole, in qualche modo permane come una macchiolina, soprattutto se non se ne parla. Per cui ho voluto farlo.
Non avevo ancora finito di essere indignata da quell’intervento, quando stamane leggo la notizia di più altisonante rilevanza che una scena, quella della rottura della statuetta della Madonna, dell’Attila di Verdi, in programma per l’apertura della nuova stagione alla Scala di Milano, è stata giudicata blasfema da un sindaco della provincia di Bergamo, che rivolgendosi alla sovrintendenza del noto teatro milanese, ne ha chiesto l’eliminazione. Alla fine del contendere, tra giustificazioni e accuse, il regista Davide Livermore, insieme al Teatro alla Scala, ha accettato la modifica, pur specificando che il suo intento, logicamente, non era affatto quello di urtare o offendere alcuna sensibilità, ma semmai stigmatizzare un gesto, mostrandolo nella sua efferatezza.
Eppure il nostro sindaco bergamasco ha avuto la meglio e la statuetta della Madonna sarà sostituita con quella di una statua antica raffigurante qualche altro simbolo.
Non è questo il luogo del giudizio e del processo, solo quello dello sdegno e ci tengo ad asserire che l’Arte è libera e deve restarlo.
Comunque sia e per fortuna, è impossibile censurare il luccichio dei Suoi occhi.
Annabruna Gigliotti