Mi chiamo Dana, sono nata in Russia e sono diventata cittadina dell‘Ucraina a tre anni, quando i miei genitori decisero di trasferirsi per lavoro in una zona di Donbass.
Il Donbass è un ampio territorio industrializzato, prevalentemente abitato da cittadini di nazionalità russa. Fino al secondo decennio del ventesimo secolo apparteneva al grande Impero Russo e governava lo Zar.
Verso gli anni novanta, noi (sia la mia famiglia che “noi” in senso generale, cittadini russi) nelle sedici Repubbliche assolutamente amichevoli, godevamo di uguali diritti ed era possibile vivere in tranquillità e sicurezza.
La sanità, le scuole, l‘università, era tutto a carico dello Stato. Gli studenti meritevoli potevano contare su un alloggio a poco costo e uno stipendio, così come gli asili per i bambini da 6 mesi all’età di 6 anni costavano pochissimo e tutti i genitori potevano portare i loro figli dalle ore 7 del mattino fino alle ore 20. In caso necessario anche per 24 ore e per tutta la settimana lavorativa.
Non ci mancava né cibo né lavoro.
Penso che forse proprio per questa serenità acquisita i nostri nemici hanno fatto l‘impossibile per distruggere tutto, seminando guerre, odio e dividere i popoli. Da amici a nemici.
Fu una tragedia. Una grande tragedia per milioni di persone.
Nella tragedia, la guerra in Yugoslavia, la divisione della Cecoslovacchia, l’impoverimento della Bulgaria e tanti altri disastri.
A metà degli anni novanta i cittadini dell’ex Unione Sovietica hanno iniziato a sentire la fame, nel senso più vero della parola. Le fabbriche chiudevano e guadagnare un po’ di soldi per la sopravvivenza divenne quasi impossibile.
Ingegneri, dottori, insegnanti, dirigenti scolastici, dirigenti di fabbrica, tutti costretti a cercare alternative e possibilità di guadagno.
Siamo rimasti tutti senza niente. Niente per sopravvivere.
Migliaia e migliaia di persone con istruzione superiore sono andate ai mercati per vendere vestiti, oggetti personali e le patate.
Così sono nati i flussi migratori russi, ucraini, bielorussi, moldavi, georgiani ecc.
Tutti in fuga ben lontano dalle nostre patrie.
Aeri, treni, e pullman portavano la nostra gente in lunghissimi viaggi verso l’Europa e anche fino all’America.
Hanno lasciato la loro terra i nostri migliori medici dopo aver studiato per anni nelle nostre Università, i nostri brillanti studenti che prima speravano di diventare scienziati, i nostri dottori in economia che hanno abbandonato i loro uffici dove ormai non era rimasto niente, le nostre mamme ed i papà che hanno lasciato i loro piccoli ai nonni o agli zii, a volte anche ai vicini di casa.
Tutti abbiamo accantonato le nostre cose, i nostri affetti, le abitudini di vita, e i nostri cari per una meta lontana, per un qualsiasi lavoro che permettesse di spedire un po’ di soldi alla propria famiglia.
Così è successo anche a me.
A casa ho lasciato due figli: uno appena di 17 anni, e l’altra di due anni più grande.
Nessuno mi aspettava qua, in Italia. Mi hanno dato il visto italiano.
Grazie, Italia!
Pensavo … Non ti faccio niente di brutto. Rispetterò le tue tradizioni e le tue regole.
Già sul treno per Kiev avevo aperto il dizionario. Non sapevo né “si” né “no”. La prima parola che mi capitò di leggere fu “Rana”.
Mi ci ero soffermata perché era un suono molto strano per me.
Dopo diciassette ore di treno e quasi cinquanta ore di pullman sono arrivata a Napoli. Giovedì 25 maggio, ore 18.
Dove andare? Dove vado a dormire?
In stazione c’era tanta gente con le valigie … Non sapevo se erano come me o solo semplici viaggiatori.
La mia priorità era cercare subito un telefono pubblico per avvisare i miei del buon arrivo a destinazione. Di certo non gli avrei mai detto della sofferenza e di tutte le mie preoccupazioni. Mai.
Guardandomi intorno vidi un uomo in divisa e mi avvicinai:
”Where can I find a public phone?”
Non capii assolutamente niente della sua risposta in italiano.
Pur ripetendo più volte la domanda, continuava a rispondermi in italiano. Chissà perché ero convinta che all’estero tutti quanti parlassero l’inglese …
Improvvisamente sentii una mano sulle spalle e una voce femminile nella mia lingua:
” Sei appena arrivata? Ti faccio vedere dove potresti telefonare”.
“Ma tutte queste persone che stanno sedute dappertutto sulle valigie? Sono viaggiatori?”
Finalmente potevo comprendere qualcosa.
“No, è tutta nostra gente”.
Rimasi scioccata.
Dopo pochi minuti mi si avvicinò un’altra donna ucraina:
”Non sai dove dormire? Andiamo da me, tengo posti-letto”.
C’incamminammo in una piccola stradina vicino al vecchio Tribunale, e a un certo punto mi fece entrare in un garage.
Non c’erano finestre e la stanza era piena di lettini e persone, uomini e donne insieme.
Pensai ai nostri appartamenti e le villette nei piccoli paesi, provai una grande amarezza e desolazione nel ritrovarmi in un luogo così fatiscente e in una condizione agli estremi della miseria.
Eravamo costretti a vivere così. Di giorno uscivamo tutti da questo garage, come insetti, per andare alla ricerca di lavoro, poi, verso sera tornavamo per dormire, chi per una notte, e altri per un periodo più lungo.
Fortuna?
Dopo tre giorni di ricerca di un “lavoro” fui scelta da un’ucraina che voleva trasferirsi al nord e cercava una sostituta. Andai con lei presso la casa dei “signori”, (“Sono molto gentili”), in una zona della metropolitana Mergellina.
Un palazzo signorile e una famiglia composta da Luisa, 34 anni, e Francesco di cinquanta con un figlio di 6 anni, Nicola.
Lei lavorava in banca e per questo si sentiva molto importante. Dopo un solo giorno rimasi lì, da sola, e mi sentivo veramente abbandonata a me stessa. La presenza di una donna ucraina con cui poter parlare e capirsi prendeva un’enorme importanza e quella nuova solitudine mi faceva sentire paura, paura di ogni cosa e piansi molto.
Ma era stata una mia scelta, seppure costretta, e dovevo pensare al meglio per il futuro.
Non era facile, oltre la lontananza, anche il vivere quotidianamente era difficile.
Dovevo mangiare da sola in cucina e solo se avanzava qualcosa. Ricordo che un sabato avevano portato a casa dal mercato un grande pesce.
Il Signor Francesco lo preparò personalmente e mi chiese di portare il piatto in salotto dove a tavola aspettavano la moglie e il figlio.
Io ero affamata e aspettavo quel momento per mangiare quel po’ che erano i resti, ma il Signor Francesco leccò tutte le lische del pesce, una a una, dopo di che andò nel salotto per pranzare. Da non credere, ma ho spesso patito fame.
Non sapendo la lingua italiana gli chiesi di scrivermi tutto in inglese. Tutti i membri della famiglia parlavano l’inglese così almeno potevo capire meglio. Dovevo fare tutti i servizi in casa e portare il ragazzo a scuola e andarlo a riprendere.
Tutto bene. Bene??
Nicola era un ragazzino bellissimo con gli occhi come due laghi. Qualche volta cercava di sollevare la mia gonna e io non ero di certo abituata a questi modi da parte di un bambino. Ero scioccata.
La Signora Luisa si sentiva molto signora. Ci teneva a darsi un sacco di arie. Grazie a lei, comunque, ho imparato bene una parola italiana, la prima senza l’uso del vocabolario. Una volta pulendo in casa avevo spostato una sedia di 40 cm. Al ritorno dal lavoro e notando questo spostamento, la signora Luisa per ben cinque interminabili minuti infierì sgridandomi:
”Ma perché? Perché? Perché???” Facendo un segno sulla sedia.
Compresi subito il senso e non mi sbagliai più.
Dopo un mese circa, la famiglia partì per le vacanze a Capri.
Luisa mi evidenziò sul calendario la data di quando sarei dovuta tornare da loro. Ma io, dentro di me, avevo già preso la mia decisione.
Durante una passeggiata a Mergellina avevo conosciuto un capitano di una grande barca, un noto signore che mi propose un lavoro di badante.
Per tre anni e tre mesi rimasi quindi accanto alla sua mamma e proprio grazie alla sua famiglia con la quale sono rimasta in ottimi rapporti anche oggi, ebbi il Permesso di Soggiorno.
Ma come sta la mia famiglia? I miei genitori? I miei figli? Tutti i miei cari. Gli ho telefonato ogni settimana. Non li ho visti per tre anni e quattro mesi. Per la prima volta dopo quegli anni sono andata in occasione del compleanno di mia figlia, i suoi 21 anni.
Nove mesi prima avvertii la famiglia italiana di cercare un’altra badante per quella data. Andò tutto bene.
Nell’ estate del 2004 girando con gli amici nei dintorni di Napoli, mi colse l’attenzione una struttura di legno. Bella… C’erano casette in legno, gazebi e recinzioni di ogni tipo.
Qualche giorno dopo chiamai il proprietario, il sig. Giuseppe.
Gli chiesi per un posto di lavoro e mi diede appuntamento nel suo ufficio per una prima conoscenza.
“Va bene, ti prendo come commessa del nostro negozio di giocattoli di legno.”
”Molto bene. Sono contenta. Però devo rinnovare il Permesso di Soggiorno e per questo devo avere un contratto.”
“Non ti preoccupare. Te lo faccio sicuramente!”
Anche di fronte alla mia richiesta d’informazioni sullo stipendio, la risposta fu la stessa:
”Non ti preoccupare.”
Così andò.
Ero felice e tranquilla.
A metà settembre iniziai a lavorare in questa struttura.
C’erano molti operai, circa venti uomini tutti stranieri: russi, ucraini, bulgari, romeni e polacchi.
Addirittura alcuni che venivano a chiedere lavoro rimanevano direttamente. Passarono i giorni, ormai era iniziato ottobre e ancora non avevo informazioni sul mio stipendio.
Il primo mese lavorai come aiuto segretaria, sostituendola quando non c’era, tenendo in ordine e pulito gli uffici, accompagnando i clienti sul territorio. Quando chiedevo al Sig. Giuseppe del contratto la sua risposta era sempre la stessa: ”Non ti preoccupare, te lo faccio. Domani o dopodomani.”
Un altro mese era volato e nessun contratto mi era stato ancora sottoposto.
Ero agitata, innervosita anche perché senza quel contratto non avrei potuto avere il prolungamento del permesso.
Finalmente l’ultimo giorno di ottobre ebbi il contratto tra le mani e andai subito in Questura.
Il mio primo stipendio fu 400 euro che ricevetti solo alla fine di novembre.
Nei successivi mesi lavorai più spesso come commessa. I giocattoli di legno arrivavano dalla Polonia come del resto il legno tondo. Ogni tanto nell’ ampio cortile del magazzino arrivavano grandi automezzi polacchi pieni di legname per costruire tutti i prodotti dell’azienda.
Gli operai dovevano triturare, affilare, tagliare, segare, tutti lavori molto duri e pericolosi, dalle 8 del mattino alle 18 di sera. Ma le giornate lavorative diventavano spesso molto, molto più lunghe. A volte i ragazzi tornavano dai clienti fuori sede alle ore 20 o anche 21.
L’azienda aveva i clienti anche lontano dalla sede: ristoranti, fabbriche, privati che commissionavano lavorazioni come recinti, balconi, altalene per bambini, gazebi e pavimentazioni ecc..
E si sentiva sempre: ”Presto! Dovete fare presto! Il cliente vuole avere la sua ordinazione presto!”
Solo gli stipendi non si davano presto.
Ogni sabato dopo la fine della settimana lavorativa una catena di stranieri circondava il maestro dell’impresa, Giuseppe, o sua figlia maggiore, Marisa.
“Sig. Giuseppe, ci date un po’ di denaro? Non abbiamo niente per la domenica.”
“Oh ragazzi, già avete speso tutto dal sabato passato? Non lo so … non lo so … Vediamo, magari questa settimana tengo la difficoltà … un cliente non mi ha pagato ancora. Va bene … prendi tu 20 euro … e tu 20 … Ma tu l’ultima volta hai avuto da me 40 euro. Li hai spesi tutti?”
“Ma signore, dateci per favore quello che ci spetta, lo stipendio del mese” “Si, si, certo. Sabato prossimo. Non vi preoccupate!”
E così andava ogni settimana.
Pure il mio stipendio dovetti richiedere più volte e nel frattempo facevo i lavori più disparati. In caso necessario mi chiedevano di verniciare gli oggetti di legno, di aiutare nei servizi di pulizia dell’azienda, di pulire i marciapiedi, o stare al posto della segretaria quando non c’era. Ma la maggior parte delle giornate stavo nel negozio.
Da me venivano i genitori con i bambini per comperare i giocattoli.
Gli operai cambiavano frequentemente. Ed ho capito il perché.
Una volta avevo sentito un dialogo tra loro e Giuseppe.
L’argomento sempre la questione dei soldi non pagati. All’ulteriore richiesta del pagamento alla fine della settimana, Giuseppe disse;
”Domani non avete niente da mangiare? Venite a casa mia, io ce ne ho da mangiare!”
Tanti di questi poveri uomini se ne andavano via senza avere il loro guadagno. Non potevano vivere due o tre mesi senza i soldi. E tutti quanti, non avevano neppure un regolare contratto di lavoro. Eppure l’azienda funzionava economicamente benissimo in quegli anni. Un’azienda molto conosciuta e con tantissimo lavoro commissionato. Il legno dalla Polonia arrivava continuamente e i clienti venivano dalla mattina alla sera. La produzione veniva distribuita ogni giorno per tutta la regione.
Però, chi produceva tutto questo materiale se sulla carta non esisteva nessun addetto ai lavori? Una ventina di operai che non esistevano.
Una cosa impossibile. In Italia è possibile? Rispondetemi voi.
Ma io avevo il contratto e per me quello era molto importante. Anche se lo stipendio era poco e non sapevo quando e se mi veniva dato.
Passarono infatti dei mesi e neppure arrivati alle vacanze ricevetti il mio stipendio. Neanche il pagamento di fine anno, neanche la tredicesima, niente. Ma per me era importante il contratto.
A febbraio chiesi a Giuseppe se mi poteva aumentare un po’ e mi diede 500 euro dicendomi:
”Non dire niente a mia figlia”.
Bene, signore, se il mio tacere mi aiuta a guadagnare ben cento euro in più…
A marzo 2006 dovevo di nuovo rinnovare il Permesso e già da tempo premevo Giuseppe ricordandogli la mia situazione.
Ovviamente la risposta l’avevo da subito imparata bene:
”Non ti preoccupare”. La stessa della figlia alla quale ricordavo il peso di quella scadenza:
”Non ti preoccupare”.
Quel giorno fu terribile. In questura scoprii che il contratto presentato a ottobre 2004, quindici mesi prima, fu preparato praticamente solo per l’occasione. cioè solo per presentarlo alla questura. Fu interrotto infatti subito dopo senza dirmi niente, a mia assoluta insaputa e senza la mia firma.
Ma come possibile??
Non sapevo cosa fare … Ero amareggiata e tanto, tanto arrabbiata.
Ero arrivata in Italia certa di trovare un paese civile basato su saldi principi e diritti umani, sulla democrazia e sulla giustizia. Pensavo che l’Italia non fosse un paese dove in sostanza si pratica la differenza, sfruttando le difficoltà delle persone e in questo caso degli stranieri.
Giuseppe si diceva sicuro del fatto che comunque mi avrebbero dato il nuovo Permesso anche senza il Contratto.
Non voleva assolutamente pagare i contributi per lo Stato. Come del resto non li pagava per tutti i suoi operai.
“No, signore, no! Mi serve il contratto”
”Si, Dana, si!”.
In Questura quel giorno mi fu dato una carta con sopra scritto che avevo tempo un mese per portare un contratto.
Passarono i giorni, uno a uno, senza essere pagata e nell’agonia di elemosinare un contratto per un lavoro che svolgevo da tempo.
Solo agli sgoccioli di aprile riuscii a rinnovare il mio Permesso.
Nel frattempo mi ero rivolta ad un avvocato. C’eravamo conosciuti qualche mese prima a casa di amici. La sua associazione conosceva bene la mia situazione e anche lui mi diceva:
“Non ti preoccupare, Dana, ti aiuto io. Se vuoi andar via da questi mascalzoni possiamo fargli causa.”
Mi sono fidata di lui. Era maggio 2006.
Quella frase, “non ti preoccupare”, non porta per niente bene … Nonostante le mie telefonate alle quali seguivano le solite rassicurazioni, nessun fatto fu portato mai avanti.
Io nel frattempo mi ero spostata al nord per un nuovo lavoro, erano passati due anni. Lui al telefono mi disse:
”Fra tre giorni vengo per lavoro nella tua città e ci vediamo.”
Benissimo!
Lo aspettai tutto il giorno. E mai più ebbi notizie di lui.
Queste vicende una dentro all’altra mi avevano sfinita. Ma dentro di me rimaneva la fermezza che il male deve essere punito.
Poi mi dicevo ”Dana, vai avanti! Devi cercare altre strade!”
Ero presa da ansie e pensieri opposti. Voler dimenticare e volere giustizia. Pensavo a quanto avevo lavorato e pensavo ai miei figli da aiutare.
Passati altri due anni era comunque rimasta la sete di verità e giustizia, così parlai con un altro avvocato.
Lui non mi disse “Non ti preoccupare”. Prese a cuore la mia vicenda, cercando testimoni e prove. Ho investito tanto tempo per questo ed anche soldi per avere documenti presso la Camera di Commercio.
Mi sono recata più volte presso l’Ufficio dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro e ho trovato la documentazione necessaria. Su quei documenti, le mie non firme, ovvero FIRME FALSE!!!! Firme fatte dall’azienda al fine di motivare falsamente un mio licenziamento che non c’era stato e il passaggio ad un’altra società. Passo dopo passo con il serio aiuto dell’avvocato abbiamo scoperto molte cose e abbiamo notificato il ricorso. E per questo grave fatto abbiamo presentato una denuncia in Procura,
Dopo tanti anni la Procura chiese l’archiviazione.
Ma come può una stato civile non considerare un reato chi sfrutta e fa contratti falsi con firme false?
Che bella Italia! La televisione ci racconta di un paese diverso, tante belle cose, tanti diritti, tanta giustizia. Per me questi dodici anni rappresentano disastri e ingiustizia e zero risposte.
Soltanto molto più tardi la Procura di Napoli Nord ha riconosciuto la nostra denuncia e nonostante gli anni passati siano tanti, ancora spero di riavere quanto mi spettava per il mio lavoro.
Ringrazio ugualmente l’Italia e gli italiani giusti, quelli che in questi lunghi e duri anni della mia vita da straniera ho incontrato.
Qualche piccola fortuna l’ho pure avuta, sono stata scelta per fare piccoli episodi in due film e tutti e due con il grande attore napoletano Antonio Casagrande.
I film sono stati girati nel periodo febbraio- maggio 2014, proprio quando nel mio paese, l’Ucraina, è avvenuto il terribile e sanguinoso colpo di stato. Furono uccise centinaia di persone e da quel momento non c’è stata più la pace.
Per il quinto anno in Ucraina c’è una guerra civile. Durante questi anni, migliaia di civili sono morti nel Donbass, tra cui circa trecento bambini. Migliaia sono rimasti disabili. Ma i mass media europei non dicono nulla sulla tragedia degli abitanti del Donbass. Le riviste italiane non raccontano nulla ai loro lettori. Guerra silenziosa e poco appariscente per il quinto anno nel cuore dell’Europa. Ucraina – Donbass.
Oggi, settembre 2018 la causa contro l’azienda è in attesa ancora.
Era fissata da tantissimo tempo l’udienza per il 20 settembre, ma è stata rinviata perché non si trovava il fascicolo. Cose tutte all’italiana. Cosa vuoi che sia un rinvio, quasi un altro anno di vita.
Arrivai in Italia tanti anni fa lasciando a casa i miei figli appena adolescenti. Cercavo il meglio della vita.
Questo mese che sono dovuta tornare con dolore e rabbia per partecipare all’udienza ho lasciato a casa due genitori ormai abbastanza vecchi, entrambi disabili.
Cerco la giustizia italiana. E tornerò a chiederla ancora.
Mi chiamo Dana, il nome d’origine russo è Дана.
A cura di Marzia Schenetti