Un discorso “serio” sui migranti avrebbe senso se la loro “integrazione” prevedesse la nostra “frequentazione”. Da quello che so attraverso private conversazioni, anche le persone favorevoli ad un’ “accoglienza” estesa o estesissima, a volte non conoscono VERAMENTE neanche un migrante: non ci vanno al bar o in trattoria, non ci vanno al cinema, ci lavorano insieme quando il mercato del lavoro li fa incontrare. Non per scelta, insomma.
Considerando queste premesse, l’incontro fra culture è allo stato attuale risicatissimo, ed avviene principalmente in contesti “festivi”: concerti di musica “etnica”, apposite manifestazioni gastronomiche.
Non si esclude che questo possa avvenire in futuro, e che i nostri figli, meno appesantiti da antichi retaggi, siano già sulla buona strada. Ma per noi 50-60-70-80-90enni la questione delle migrazioni si risolve prioritariamente in sotto-questioni “ideali”: a) ideologie dell’ “accoglienza”, o della “non-accoglienza”; b) consenso, o dissenso, verso le forze politiche che sostengano la prima o la seconda.
A questi due temi – a): ideologie; b): forze politiche – sono dedicate la Prima e la Seconda Parte del presente articolo. Sempre nella Seconda Parte parlerò dell’immigrazione, declinandola in due specifici temi: sicurezza e legalità, mercato del lavoro e “professionisti dell’accoglienza”.
Ho più volte espresso la convinzione che la politica non possa essere “ridotta” alla razionalità, ovvero al raggiungimento degli obiettivi e alla risoluzione dei problemi (dotandosi, a tali fini, di risorse adeguate e di personale politico competente).
Beninteso, la parte “razionale” della politica è sicuramente meritoria (chi non desidererebbe un maggior benessere collettivo?), ma, d’altra parte, mortalmente noiosa: una cosa da “specialisti”, forse addirittura ulteriore ai politici stessi! E quindi, un’occupazione adattissima ai “tecnici”, agli economisti, ai professori universitari in genere.
Il tema dei migranti non fa eccezione. Se si trattasse “solamente” di disegnare un futuro accettabile per chi arriva, senza penalizzare chi c’è già (ed in primis le classi popolari, il sottoproletariato e le periferie urbane), un dotto consesso di sociologi avrebbe senz’altro delle più interessanti da dire che i parlamentari, i “militanti”, gli elettori semplici, i “leoni da tastiera” dei Social. Il problema è che la materia non è solamente “razionale” … risveglia “passioni” anche profonde e virulente, perché è resa incandescente da molteplici implicazioni valoriali anche inconsapevoli ed inconscie. Ritorna il tema che ha accompagnato la maggior parte dei miei interventi in questa rubrica de “lintelligente”: quello dell’ “ideologia”.
Innanzitutto, la preferenza per un’accoglienza molto estesa, abbastanza estesa, scarsa, o nulla, soggiace ad “etiche” che, pur venendo descritte come “universali”, sono invece, al massimo, “inter-soggettive”. Se si tratta di accogliere per solidarietà cristiana, ovviamente non tutti siamo cristiani … se si tratta di farlo per internazionalismo rivoluzionario, ricordiamoci che esistono anche i nazionalisti e i reazionari. E non possiamo buttarli in mare in nome dell’accoglienza! (Che io sappia, il “campione” della non-accoglienza, Orban, gode di un largo e democratico seguito popolare, e non viene affatto considerato un dittatore dai più. Gli ungheresi, peraltro, di dittature se ne intendono! .)
Più saggio sarebbe, a mio parere, abbassare il tiro: dall’etica e alla politica, e promuovere una seria riflessione su un fatto sommariamente condivisibile: l’immigrazione in Europa è conseguenza dell’Europa stessa, ovvero: delle sue pratiche coloniali, e del suo non-richiesto interventismo nella possibile transizione da regimi tradizionalmente dispotici, a regimi che, “nelle nostre intenzioni”, dovrebbero assomigliare alla democrazia rappresentativa europea. Ma è sicuro che fuori dall’Europa ci si attenda questo genere di “aiuti”? Ed anche ipotizzando una “superiorità” del nostro modello di partecipazione politica, siamo sicuri che quelle popolazioni siano state disposte a pagare le conseguenze del dopo-Saddam e del dopo-Gheddafi, perché rapite dal sole radioso del parlamentarismo?
E’ ovviamente una domanda retorica: la supposta “superiorità” va di pari passo con gli interessi economici dell’Occidente, e genera necessariamente dei paurosi dissesti internazionali, di cui l’ “accoglienza” è epifenomeno. Insomma, ci sarebbero ottimi motivi per “risarcire in accoglienza” il disordine creato, nella consapevolezza, che per ogni situazione “sanata”, se ne creano incessantemente altre cento nuove.
Se considerassimo l’immigrazione come una forma di risarcimento parziale verso ciò che noi stessi abbiamo generato e generiamo, si toglierebbe il tappeto sotto i piedi sia ai tronfi discorsi sulla “comune umanità” (che sono così ovvi, da non aver bisogno di essere ribaditi ai pretesi “inumani”), sia al ben oliato “allarmismo sociale” delle Destre.
Dovremmo insomma limitarci a fare il “meglio possibile”. Tuttavia, il “meglio possibile” coinvolge necessariamente il discorso sui “quanti”.
Se nel concetto di “accoglienza” contempliamo non soltanto che gli immigrati vengano a fare i lavori che noi non vogliamo fare (un’argomentazione anche comprensibile, se proviene da un imprenditore, ma inconsapevolmente infame in bocca a persone di Sinistra) …
… o che vengano a pagarci le pensioni (idem) …
… o addirittura che vengano a risollevare le sorti di una natalità italiana “misteriosamente” compromessa negli ultimi decenni …
… ma che possano, invece, essere realmente competitivi nel diventare Magistrati, Professori, Liberi Professionisti, relegando i nostri figli nei cantieri e nelle carrozzerie, deriverebbe necessariamente che una “quantità eccessiva” di immigrati finisca per essere deleteria anche loro stessi, in quanto li relegherebbe ad una marginalità pluriennale, che ben contribuisce a spiegare il risentimento delle cosiddette “seconde generazioni”.
Tuttavia, quando il discorso sui “quanti” finisce per sembrare disdicevole, “si traveste” (ideologicamente); e diventa un discorso sui “quali”: chi dovremmo accogliere? solamente chi scappa dalla guerra? dalla fame e dalla sete? dalla povertà? da un futuro percepito come infausto? dalle dittature? …
… come se questi fatti fossero reciprocamente distinguibili l’uno dall’altro, con un taglio netto.
Che il discorso sui “quali” sia in realtà un travestimento di quello sui “quanti” basterebbe un’unica argomentazione: noi non sappiamo come si comporteranno i detenuti che fuoriescono per un qualche motivo legale dal carcere (non gli evasi, intendo: quelli che terminano la pena o accedono alla semi-libertà, per esempio).
E pertanto, nonostante vivano in un ambiente chiuso e sorvegliato, e nonostante che la Psicologia sia (così dicono) una scienza “predittiva”, dopo anni di osservazione, non sappiamo dire chi siano veramente.
Trasportiamo queste considerazioni sui migranti che arrivano mediante i “viaggi della speranza”: possiamo distinguere le persone perbene da quelle che vengono perché in un modo o nell’altro in Italia “si svolta” (anche in piccoli crimini a cui ci siamo oramai abituati, come lo spaccio delle droghe leggere), o da quelle che potranno essere impegnate in azioni terroristiche?
Ovviamente, no.
Fare un discorso sui “quali” equivale ad ammettere che non possiamo accoglierli tutti; però, senza rinnegare il persistente riferimento ad intenzioni umanitarie, e senza prendersi, correlativamente, la responsabilità di fare un discorso “meno valoriale” ma “più realistico”, ovvero orientato alla risoluzione del problema concreto.
Tuttavia, come abbiamo detto, l’ “ideologia” e “l’azione delle forze politiche” è “appassionante”, e pertanto meritevole di dibattito, mentre la risoluzione dei problemi è “noiosa”.
Del resto, se avessimo voluto risolvere veramente i problemi, ci saremmo occupati per tempo dei clochard, che sono un numero relativamente esiguo, e pertanto potevano essere sottratti al loro destino anche mediante un esiguo dispendio di risorse. Ed invece, ogni anno ci sentiamo “più buoni” se ne muoiono di meno d’inverno, magari perché teniamo pietosamente aperta qualche stazione della metropolitana.
I clochard condividono con i migranti (e qui chiudiamo il cerchio) una caratteristica principale: nella “vita reale”, quasi nessuno di noi li frequenta.
Gianfranco Domizi