Secondo la Comunità Scientifica Internazionale, l’autismo o, come viene di recente meglio definito, il Disturbo dello Spettro Autistico (o DPS, Disturbo Pervasivo dello Sviluppo), è una patologia neuropsichiatrica che interessa la funzione cerebrale e comprende una serie di sindromi che riguardano la sfera comportamentale.
L’etimologia della parola autismo deriva dal greco “autòs” e significa “se stesso”. La prognosi della malattia è severa. In Italia si calcola che i bambini che soffrono di Disturbi dello Spettro Autistico, sono circa il 3% con una netta prevalenza del sesso maschile. Inoltre, su ogni 100 bambini colpiti da Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, qualora venisse anche effettuata una diagnosi precoce, solo l’1, al massimo il 2%, da adulto potrebbe avere una vita normale, un 25% riuscirebbe ad ottenere una certa autonomia in famiglia, mentre i rimanenti resterebbero dipendenti dagli altri e costretti a vivere o con qualche familiare o in contesti protetti e sorvegliati.
L’autismo è una delle disabilità psichiche più gravi che possa colpire una persona ed è anche una di quelle patologie sulla quale regna una gran confusione. Proviamo a spiegare il perché.
Tanto per cominciare, per la maggioranza delle famiglie, crescere un bambino differentemente abile è di per sé un’esperienza estremamente traumatizzante. Inoltre, la disabilità di origine psichica per molti genitori è talvolta ancora più difficile da accettare rispetto ad una inabilità fisica o psico-fisica, proprio perché il “male” è invisibile.
«Non è grave come gli altri bambini», ripetono molti genitori quando vedono per la prima volta gli ospiti che frequentano una struttura per disabili.
A questa delicata situazione si va poi ad aggiungere la peculiare genesi sulla quale si è evoluto il concetto scientifico di autismo, una macchia indelebile di cui la Comunità Medica si è irrimediabilmente sporcata. Partiamo dall’inizio. In passato, in assenza di strumenti scientifici adeguati, il Disturbo Pervasivo dello Spettro Autistico veniva attribuito alle fate. In Europa si riteneva infatti che queste girassero tra le culle dei piccini per scambiare i loro bambini con quelli umani. Superata tale antica superstizione, nello scorso secolo molti “insigni” studiosi, tra cui prima Malanie Kleyn e successivamente Leo Kanner (da cui l’autismo in origine trasse il nome), cominciarono ad occuparsi di questa patologia con un approccio scientifico, dando però origine ad uno dei fraintendimenti più grossolani che la storia della disabilità abbia mai conosciuto nel campo medico.
Psichiatri, neuropsichiatri e psicologi infatti, fino a pochi decenni fa, hanno considerato i bambini autistici neuropsichiatricamente sani e pertanto hanno a lungo ritenuto che la compromissione della loro sfera comportamentale fosse dovuta ad un inadeguato rapporto che il bimbo aveva con la propria madre. Una supposizione davvero assurda. Si cerchi di immaginare lo stato d’animo di genitori che, dopo aver appreso la traumatica notizia della grave disabilità psichica del proprio bambino, dovevano fare i conti sia con i sensi di colpa provati per qualcosa che non avevano commesso, sia sopportare il biasimo (non sempre tacito) degli addetti ai servizi sociali, cioè proprio coloro dai quali, istituzionalmente parlando, avrebbero dovuto ricevere sostegno.
Questa situazione grottesca ha, ancora oggi, degli strascichi. Attualmente, da una parte, ci sono i genitori i quali hanno completamente perso fiducia nelle Istituzioni, dall’altra, un po’ per le speculazioni, un po’ per incapacità di prendersi precise responsabilità, vi sono molti addetti ai lavori che in tema di DPS, continuano ad essere o vaghi e approssimativi, oppure tendono, per interessi personali, ad alimentare aspettative non proporzionte alla gravità del soggetto preso in esame.
A proposito di responsabilità… Negli ultimi trent’anni sono state investite “importanti risorse” su precisi criteri di terapie riabilitative (come il metodo A.B.A., il programma T.E.A.C.C.H ed altri) e su varie forme di comunicazione facilitata (come quella definita aumentativa), con risultati a volte incoraggianti, altre volte dubbi, altre ancora irrilevanti. L’unica cosa certa è che, come abbiamo già detto, indipendentemente dalla diagnosi e dagli interventi, solo l’1% dei bambini autistici da adulti potranno vivere una vita autosufficiente. Ciò non significa che dei buoni progetti applicati con metodologie efficaci e da operatori competenti non migliorino le condizioni dei bambini autistici, anzi, tale constatazione ci dovrebbe indurre ancora di più a concentrare le energie e le risorse in nostro possesso sul benessere psico-fisico reale dell’autistico piuttosto che nel vano tentativo di fargli apprendere abilità non compatibili con la gravità della patologia.
Ecco il motivo per cui tutti gli educatori e psicologi animati da grande coscienziosità professionale, prima di iniziare qualsiasi programma psico-riabilitativo, si accertano sempre che lo stesso sia veramente utile a favorire il benessere psico-fisico di un disabile, che non crei nei familiari aspettative sproporzionate alle possibilità concrete e, soprattutto, che non vada a sostenere altre cause legate più al business o al prestigio personale piuttosto che alle esigenze di un bambino o del giovane autistico in questione
Antimo Pappadia