Per la rubrica Autobiografia del disagio, in questo numero ci occupiamo di un tema importante quale quello del lavoro o meglio, dello sfruttamento e del caporalato. Sono diversi anni che viaggio tra l’Emilia e il basso Lazio, e ho negli occhi queste distese di campi, di coltivazioni, come quelle figure, che ho definito “ ciclisti dondolanti”, nelle ore buie, tra l’alba e la sera. Ci sono realtà che non meritano solo la curiosità e l’attenzione, ma oggi più che mai, meritano il sostegno e l’impegno civile.
Marco Omizzolo, sociologo, responsabile scientifico di “InMigrazione” e ricercatore Eurispes, si è impegnato da anni nello studio e denuncia del fenomeno nel territorio Pontino, e proprio per questo quotidiano impegno subisce minacce e intimidazioni.
Nell’intervista riportata integralmente, Marco, ci espone un quadro chiaro e forte sulla situazione del suo territorio, in merito: Agricoltura, Criminalità, Immigrazione, Mafia.
– Quali sono le motivazioni che ti hanno portato ad impegnarti da molti anni a temi “scottanti” quali: legalità, mafie, caporalato?
Le motivazioni sono diverse. Sono innanzitutto legate ad un quadro di valori al quale io faccio riferimento. Sono infatti nato e cresciuto in provincia di Latina, luogo in cui le mafie sono presenti da molti anni. Su questo ho pubblicato, per radici Future, una mia ricerca dal titolo “La Quinta Mafia” (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/la-quinta-mafia/). Mi sono interessato al tema del caporalato perché l’ho intercettato attraverso una mia esperienza di ricerca: ho scritto infatti la mia tesi di dottorato sulla comunità indiana presente in provincia di Latina e ho, tra virgolette, scoperto il fenomeno particolare del caporalato indiano, della tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e del padronato agricolo. Chiaramente ho intrecciato questi temi attraverso un percorso che ha unito la mia esperienza personale, di soggetto e di cittadino presente in un territorio così complicato, con una metodologia di ricerca che è per l’appunto quella sociologica, e in particolare l’osservazione partecipata ed elementi di sociologia visuale, che mi ha permesso di legare fenomeni, processi, soggetti e questioni diverse. Ho così potuto approfondire questo tema attraverso un’osservazione palese e forte. Io sono anche un operatore sociale che unisce ricerca sociale ed azione sociale, e il tema delle mafie, delle ecomafie e delle agromafie l’ho affrontato anche sotto questo punto di vista. Ho quindi fatto sintesi di un approccio esistenziale, valoriale: un approccio giornalistico e d’inchiesta e un altro scientifico sociologico; questa somma mi ha permesso d’inquadrare in maniera abbastanza puntuale il fenomeno.
– Il territorio dell’Agro Pontino, un territorio appetitoso per la vastità delle coltivazioni, “l’accoglienza” e il relativo sfruttamento della mano d’opera.
Quando pensi sia iniziato questo fenomeno mafioso? E da quanti anni ti sei attivato?
Per quanto riguarda più nello specifico la questione dello sfruttamento lavorativo, con riferimento alla comunità indiana, quest’ultima nasce intorno alla metà degli anni ‘80 e inizia ad essere da subito una comunità variamente sfruttata in agricoltura perché trova in quella nicchia occupazionale (il bracciantato) la possibilità, per l’appunto, d’impiego alle condizioni imposte dal datore di lavoro. I rapporti di forza sbilanciati quasi da subito determinano l’organizzazione di un sistema di caporalato e poi successivamente di tratta internazionale; si può affermare che, dalla metà circa degli anni ‘80 fino ad oggi, questo fenomeno si è organizzato sino ad assumere caratteri mafiosi perché ha intercettato le mafie autoctone e nel contempo permesso la formazione di organizzazioni criminali protomafiose che sono la sintesi tra il padronato italiano e i trafficanti indiani. Tutto questo ha dato vita ad un sistema criminale ben organizzato. Io me ne occupo da circa dodici anni in maniera continuativa, assidua, quotidiana, così d’aver prodotto un monitoraggio completo di tutto il fenomeno. Chiaramente su questi aspetti di merito è necessario un intervento coraggioso della politica e delle categorie datoriali che purtroppo manca ad oggi.
– Quali sono stati e quali sono attualmente le tue attività di contrasto?
Continuo a fare ciò che ho sempre fatto. Analisi intensa giornalistica e da questo punto di vista scrivo per una serie di testate nazionali e internazionali che mi permettono di raccontare ciò che rilevo nella provincia di Latina. Poi, di saggistica, soprattutto sociologica, e quindi pubblicazioni inerenti a questi temi. Penso ai miei contributi per il dossier “Agromafie” di Eurispes e per “Agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto. La mia ultima ricerca in tal senso riguarda una collettanea dal titolo “Migranti e Diritti” (http://www.tempi-moderni.net/prodotto/migranti-e-territori/) nella quale, con il mio saggio, cerco di approfondire il tema del caporalato spiegandone le dinamiche interne. Poi agisco per produrre le trasformazioni nel territorio volte a contrastare questo fenomeno e ciò significa fare presidio di strada, incontrare quotidianamente i lavoratori, organizzare con la “Coop In Migrazioni” progetti volti a consentire la liberazione dei lavorati e lavoratrici da questa condizione. Basti pensare che negli ultimi due anni, personalmente, ho presentato insieme a molti braccianti indiani, circa 150 denunce contro padroni e padrini della provincia pontina. Stanno ora partendo i primi processi ed alcuni caporali e padroni italiani sono stati arrestati.
– Gli indiani Sikh, i primi ad essere sfruttati nel territorio: sei riuscito a manifestare e organizzare con e per loro il primo sciopero, in un’epoca in cui lo sciopero è tornato ad essere rischioso come i primi della storia. Quali sono state le difficoltà non solo di organizzazione e attuazione ma anche quelle d’informazione delle persone?
In realtà quello sciopero è nato in seguito ad un percorso molto lungo, circa di dieci anni, che ha visto il mio sforzo e la mia attività certamente fondamentale, ma in associazione con la Flai CGIL, e proprio la CGIL è risultata fondamentale nell’organizzazione dello sciopero, e quindi in tutte quelle pratiche utili a garantire sicurezza e accordo anche con le istituzioni perché quello sciopero non precipitasse in una manifestazione di difficile gestione. Le difficoltà organizzative sono state legate al rapporto con la comunità indiana che è abituata a vivere ai margini; abbiamo dovuto agire nel lungo periodo per convincere ad organizzare un’iniziativa volta a contrastare tutto questo, e poi sopratutto nella fase post organizzativa, cioè in quella fase che io definisco grigia, che è data dal momento in cui si spengono i riflettori su quello sciopero; lì è stato particolarmente difficile perché abbiamo dovuto gestire il colpo di coda del sistema padronale nei confronti dei braccianti indiani. In quella fase molto più delicata, non abbiamo dovuto soltanto intercettare il bracciante licenziato e malmenato ma abbiamo dovuto dare una risposta concreta alla loro sofferenza, spiegandogli che quella reazione in qualche modo era stata determinata da uno sciopero, ma quello sciopero restava cosa giusta e buona e che anzi bisognava perseguire con una denuncia e con il racconto di quello che avveniva nelle campagne.
– In alti territori del Sud, tra i braccianti sfruttati, sono presenti molte donne italiane. Nel territorio Pontino come si sta modificando la mano d’opera?
Le “aziende” soprattutto dopo gli scioperi, come si sono mosse nei confronti della comunità indiana?
Alcune hanno reagito migliorando le retribuzione e soltanto le retribuzioni ma allungando parimenti gli orari di lavoro; in altri casi invece i braccianti sono stati vessati, vi è stata una reazione dura e violenta, addirittura licenziati e allontanati dall’azienda, invitandoli a trovare lavoro altrove; in altri casi vi è stata la sostituzione della comunità indiana con i richiedenti asilo, soprattutto nell’area tra Sabaudia e Latina, reclutati all’interno dei centri di accoglienza straordinaria attraverso una relazione diretta tra chi gestisce quei centri e alcune aziende agricole pontine.
– Caporalato e Mafia. Purtroppo inevitabile la terza parola “intimidazioni”, e la quarta, “minacce”.
Ne hai ricevute diverse e anche negli ultimi mesi, ci vuoi raccontare?
Si molte. Basti considerare che negli ultimi due anni mi hanno distrutto quattro volte l’auto.
Ho avuto minacce e intimidazioni sia dirette che attraverso i social. Vi è stata una macchina del fango che mi ha accusato di gestire un traffico internazionale di essere umani e di percepire il 10% delle retribuzioni di tutti i braccianti indiani della provincia di Latina. Chiaramente, tutte intimidazioni e minacce, che sono state prontamente denunciate da me; in alcuni casi, purtroppo, soltanto nei confronti di soggetti anonimi, questo perché spesso chi sta dietro a questo genere di intimidazioni e minacce è impavido e vigliacco, in altri casi siamo riusciti a risalire agli autori e quindi questi sono stati denunciati per nome e cognome. E’ chiaro che queste minacce non riguardano solo me ma anche la mia famiglia ed è evidente che questo generi una pressione forte sulla mia persona. Resta il fatto che le minacce che io subisco sono molto inferiori alle minacce che subiscono decine di migliaia di braccianti, uomini e donne di questo territorio, ed è evidente quindi che questa loro condizione mi spinge ad accelerare quel processo di analisi, di studio e di denuncia del fenomeno.
– Una frase del Giudice Falcone in merito a quanto sia importante che una giusta causa non resti individuale ma abbia il massimo sostegno istituzionale: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.” Le Istituzioni come si stanno muovendo? E tu come vivi personalmente questa realtà?
Devo dire che ci sono istituzioni che mi sono molto vicine; penso al Comando Provinciale dei Carabinieri e alla Questura di Latina; la Procura della Repubblica sta facendo un buon lavoro con l’applicazione della nuova legge sul caporalato, la legge 199; la provincia di Latina è una delle province dove vi è il maggior numero di padroni italiani e di caporali indiani arrestati. Ci sono inchieste ed indagini in corso e io credo, da questo punto di vista, che si stia facendo un buon lavoro. Ho un’ interlocuzione diretta che riguarda non soltanto la tutela della mia persona ma anche l’avanzamento di tesi e di analisi riguardanti questo fenomeno, e abbiamo sempre trovato accoglienza e ascolto e questo è estremamente positivo.
Manca la politica, che in alcuni casi fa soltanto dichiarazioni, in altri casi è assolutamente assente. Una politica assente, una politica distratta che tutela gli interessi di parte e in questo caso gli interessi padronali, criminali e mafiosi. Una politica che invece dichiara alla luce del sole di voler contrastare questi fenomeni e poi li contrasta realmente con atti concreti … mmm … Sarebbe indispensabile! Questa non è una partita che si può vincere senza la politica e purtroppo oggi stiamo registrando la latitanza della stessa.
– Legge contro il caporalato (l. 199/2016), secondo te questa è veramente servita? Con questa legge si hanno veramente gli strumenti necessari?
Dipende … Necessari a contrastare in parte il fenomeno assolutamente si; una legge che prevede finalmente la responsabilità penale in capo anche al padrone e datore di lavoro e finalmente l’istituto della confida e del sequestro della confisca e quindi elementi essenziali, fondamentali anche nella fase precedente alla denuncia, cioè nell’atto di analisi e di studio e di conflitto che si hanno con alcune aziende e con alcuni caporali, e questo lo dico per esperienza diretta. Non è certamente sufficiente, è soltanto uno dei cento passi che sono ancora necessari per costruire un sistema giusto ed equo. Bisognerebbe riformare i Servizi Sociali, bisognerebbe riformare in maniera seria la Magistratura, bisognerebbe migliorare gli strumenti d’indagine e controllo all’interno delle aziende agricole, bisognerebbe ricalibrare ed aggiornare anche gli strumenti di analisi dello stesso, bisognerebbe avviare progetti qualificati a vantaggio di organizzazioni che su questo tema si sono spesi e hanno competenze qualificate, bisognerebbe organizzare progetti di educazione e formazione d’insegnamento dell’italiano ai braccianti indiani, ma non soltanto… Tutte azioni e pratiche che mancano. Bisognerebbe riformare la grande distribuzione organizzata, punto essenziale. Di tutto questo non si discute, non se ne è discusso durante la campagna elettorale, non se ne discute oggi, non se ne discuterà probabilmente domani, anzi, domani forse ci troveremo a dover difendere la L.199 dagli attacchi del governo che la vede come un elemento che contrasta, non le agromafie, ma lo sviluppo economico e questo ci preoccupa molto.
– Quali soluzioni vedresti indispensabili per una risoluzione dello sfruttamento in corso? Chi dovrebbe farsene urgentemente carico?
Come dicevo, la politica, i suggerimenti che ho detto prima, a partire dalla riforma della grande distribuzione organizzata che è fondamentale ma anche la riforma seria o comunque più seria dell’attuale, degli Istituti dell’Ispettorato del Lavoro, perché non si possono ancora fare controlli a campione leggeri e superficiali come quelli che si fanno oggi.
“Quinta Mafia” (libro pubblicato da Radici Future nel 2016): l’argomento è chiaro, hai avuto difficoltà per la pubblicazione e/o divulgazione? Ti è capitato di vivere una situazione in tensione o dove hai percepito qualcosa, nel portare in giro questo libro?
Quinta mafia no, nel senso che io ho pubblicato con Radici Future che mi ha sostenuto fin dall’inizio, anzi abbiamo organizzato iniziative in tutta Italia, e non ho mai incontrato difficoltà in tal senso. Certo risulta anomalo invece che io abbia presentato assai poco la “Quinta mafia”, ossia l’organizzazione criminale mafiosa o il modello mafioso pontino, in provincia di Latina. L’ho presentato alcune volte a Latina, alcune volte a Cisterna di Latina, ma complessivamente si tratta di un numero veramente esiguo di presentazioni e questo a volte mi fa immaginare che ci sia la volontà di non parlare di tutto questo, di non voler affrontare questo tema. Fa più comodo nasconderlo che dichiararlo e analizzarlo che immaginare come contrastarlo. Si preferisce continuare a negare la presenza delle mafie e delle agromafie perché esse producono consenso anche elettorale e che quindi va a vantaggio di una classe dirigente piuttosto ampia nella provincia pontina.
Per chiudere, ti rubo una frase che mi è piaciuta tantissimo. La risposta che hai dato al messaggio intimidatorio mafioso.
-Al messaggio mafioso “non ci dimentichiamo di te” è arrivata una pronta risposta: “e noi non ci dimentichiamo di voi” Ecco, quella risposta è quella che ognuno di noi dovrebbe dare in ogni situazione di minaccia e intimidazione.
La risposta a chi mi intimidisce è uno studio e una denuncia ancora più qualificata, ancora più pubblica. C’è una forte mediaticità della mia situazione e per questo ringrazio giornalisti e redazioni. Le mie pubblicazioni stanno andando bene ma questo significa soltanto che il tema è un tema vero. Coloro che mi intimidiscono, che fatturano milioni di euro sulle spalle di chi viene sfruttato, devono sapere che questo movimento di contrasto alle agromafie, che è movimento nazionale, non può essere arrestato. I braccianti sono ancora in movimento, alcuni addirittura ritengono sia arrivato il tempo di organizzare un altro sciopero, altri ritengono di dover continuare a denunciare, alcuni si sono costituiti parte civile nei processi. Non è distruggendo la mia auto o infangando la mia reputazione o mandandomi fuori da questa provincia che questo processo di riscatto può essere fermato e questo forse è il risultato più importante della mia attività!
Intervista integrale a Marco Omizzolo
a cura di Marzia Schenetti