Per la rubrica “Autobiografia del Disagio”, la storia di Giuliana. Una testimonianza preziosa che tocca non solo la profondità del disagio ma anche la difficoltà di percepire quali siano i limiti dell’aiuto. La ricostruzione, si sa, dovrebbe basarsi su un fondamentale fattore, quello di rendere di nuovo l’individuo autonomo, ovvero, un individuo “libero”.
Dal libro inedito di Giuliana “Un lungo viaggio all’inferno”
Vi benedico
per tutto ciò che mi avete fatto, per tutte le sofferenze,
le umiliazioni, e le torture che mi avete inflitto
e costretto a sopportare a capo chino.
Vi benedico
perché senza tutto quel dolore, così potente,
così devastante, così ingiusto e immeritato,
non sarei mai arrivata qui.
Ti diranno che tutto passa, che tutto è effimero, e che dura poco, e che tutto è destinato a finire. Ti diranno che tutto passa, ma non diranno dove, né come né quando, e neppure quanto tempo impiegherà a passare, e nemmeno come ti sentirai mentre passa. Passerà nelle vene, nelle ossa, nel midollo, tra i capelli; passerà in ogni muscolo, in ogni goccia di sangue e di muco, nelle lacrime e nelle grida di dolore e disperazione; passerà nei tuoi sorrisi, nei tuoi pensieri, nei tuoi ricordi; passerà nella tua intera vita, attraverso quel buco scavato nello stomaco, quel buco che ti fa perdere la conoscenza e ti ubriaca di vertigini, allargandosi ogni volta un poco, lasciandoti interdetta e senza coscienza alcuna. E passerà senza pietà, senza riguardo, senza chiederti il permesso. E passerà e ti cambierà. E cercherai di resistere, e passerà.
Giuliana
Sono tornata a vivere da mia madre perché avevo perso il lavoro e non avevo nessuna risorsa economica, ma ero ben consapevole del calvario che mi sarebbe toccato. Abitavo in provincia di Reggio e avevo ricevuto l’ennesimo sfratto. Non avevo alternative, è stata una scelta obbligata.
Già da tre anni stavo male, mi sentivo sempre stanca e affaticata, ma venivo curata con antidepressivi perché il mio medico non aveva riconosciuto i sintomi di un cuore scoppiato. Dispiaceri, dolori, delusioni e perdite. Non solo riguardo al mero rapporto sentimentale ma anche a tutto quello che è stato il dramma personale ed economico, causato da un uomo malvagio fino al midollo che, nonostante tutto, ho amato moltissimo, fino a lasciarmi distruggere.
Soldi dati e mai riavuti, poi quelli che mai mi sono stati riconosciuti a compenso del mio sacrificio lavorativo, le case scippate, i miei risparmi spesi per la gestione della casa in comune, cui il mio ex non ha mai partecipato. Io pagavo tutto, dalla stiratura delle sue camicie, che voleva “croccanti di appretto”, alla spesa alimentare e alla donna delle pulizie. Poi, tutti i miei beni personali: biancheria, oggetti per la casa, per la cucina, tappeti, tv, cuscini e lampade… tutte cose che non ho più.
Così nel febbraio 2010 sono costretta a trasferirmi da lei. Trovo un nuovo lavoro ma pochi mesi dopo la mia malattia si aggrava e vengo ricoverata in terapia intensiva, seguita da una lunga convalescenza e restando di nuovo senza lavoro. Quello sarà l’ultimo.
La mia è una patologia cardiaca che mi classifica in NYHA 3 e mi impedisce qualsiasi attività fisica. Anche il solo camminare per me è difficoltoso, non ho fiato. Inoltre, sono in grave sovrappeso. A causa della cura sbagliata! Gli antidepressivi sono bestiali, ti fanno ingrassare a vista d’occhio, e io li ho presi per anni… Vado in apnea al minimo sforzo. Anche vivere è uno sforzo grande! Non ho alcuna risorsa se non quello che mi è stato riconosciuto: una pensione di invalidità di 289,80 euro al mese. Questo è tutto il mio reddito e tutto ciò che ho.
Nel 2011 mia madre cade nella sua stanza. Si rompe il femore: ricovero, operazione, riabilitazione per alcuni mesi e al termine dei quali non vuole più tornare a casa. Decide di trasferirsi in una casa di riposo. Dovrei approfondire riguardo il rapporto tra me e mia madre per far ben comprendere il motivo per cui sono certa che prese quella decisione per mettermi ulteriormente in difficoltà. Non appena andò in casa di riposo mia madre revocò tutti i pagamenti delle utenze e dell’affitto lasciandomi senza risorse. In pratica mi ha detto “arrangiati”, del resto, nulla di nuovo, quello che era stato da sempre.
Così, arrivò presto un altro sfratto e dietro il miraggio di una promessa di lavoro poi mai dato, mi trasferii nel mantovano.
Nel 2014, in centro a Mantova, subisco un grave infortunio. Mi rompo perone e malleolo sinistri. Tre mesi tra ospedale e centro riabilitativo, e di nuovo uno sfratto.
In quelle condizioni mi trovai costretta a chiedere aiuto ai Servizi sociali. Sulla Gazzetta di Mantova apparirà un articolo che parla di me e della mia disperata situazione con tanto di foto identificativa … mi conoscevano in tanti e speravo in un aiuto, invece, nemmeno un cane si fece vivo.
Poi, tramite l’assistente sociale, il Centro Aiuto alla Vita di Mantova mi trovò una sistemazione provvisoria; un alloggio sito in un convento, per il quale, il Comune pagava l’affitto. Rimango per un anno e mezzo; le volontarie del Centro venivano a trovarmi spesso, e diverse volte mi hanno anche allungato un po’ di soldi per la spesa. Mi hanno consolata quando ero triste e disperata, e sostenuta e incoraggiata quando vedevo tutto nero, mi sono sentita un po’ come il figliol prodigo che rientra nei ranghi e torna a casa, accolto con tutti gli onori, e di questo sono profondamente grata. Se non ci fossero state loro sarei finita sotto un ponte.
Il giorno dopo il mio ingresso in convento mamma muore. Non la vedevo da tre anni, da quando era entrata in casa di riposo. Non mi ha mai cercata, non ha mai risposto alle mie telefonate, e con la sua morte si conclude il nostro capitolo, con una chiusura consona a tutto ciò che era stato, depredata di ogni diritto.
La mia permanenza in convento durò fino alla fine di marzo 2016, quando l’assistente sociale mi dice d’aver trovato un alloggio in cui sistemarmi. Una corte di campagna in housing sociale. Vivo lì anche oggi. Il comune provvede alle spese di affitto, riscaldamento e luce, che col mio reddito non potrei mai pagare e con la mia pensione devo arrangiarmi e mangiare. Di comprare scarpe, vestiti o altre cose non se ne parla, bastano a malapena per la spesa. Mi sono iscritta da subito all’elenco del collocamento protetto, quello dei disabili, nella speranza di trovare un lavoro per permettermi di tornare autonoma e ad una vita normale e dignitosa. Sono passati quasi due anni, ma al momento ancora nulla …
Quello è stato l’unico aiuto ricevuto. Dalle vecchie amicizie o relazioni di conoscenza nessuno si è fatto mai vivo. Tutti hanno finto di non sapere. Chi cade in disgrazia viene visto come un appestato da cui stare alla larga, non si sa mai che ti attacchi le sue disgrazie e le sue sfortune!
Ogni giorno mi chiedo che vita sia la mia. Io sono da anni in prigione. Non posso scegliere nulla, non posso fare nulla, non posso decidere nulla. E’ vero ho un tetto, ho un letto, ma non ho alcun mezzo per decidere di me stessa. Questo è quello che più mi manca nella mia vita di oggi. La libertà.
Ho ancora progetti e sogni, ancora il desiderio di ricostruirmi e di realizzarmi, ma senza un lavoro e senza mezzi, resto imprigionata, al sicuro, e imprigionata. Le giornate passano nel tedio più assoluto e nella speranza che accada quel miracolo che ti farebbe riemergere dalla nebbia e tornare, non dico alla vita di prima, probabilmente, fisicamente non potrei più farla, non ne ho le forze, ma vorrei avere di nuovo un barlume di indipendenza, per me importantissima. Ho sempre lavorato e mi sono sempre mantenuta da sola senza chiedere mai nulla a nessuno, cosa di cui sono fiera e orgogliosa. Poter decidere cosa fare e dove andare, ecco quello che vorrei: anche di prendermi un caffè in riva al lago, di farmi una corsa in autostrada, di mangiare in un ristorante, di vedere un bel posto, di andare al cinema, di comprare un paio di scarpe …
Ho le ali bloccate, tarpate, chiuse, ed è il mio più grande dolore. Per me è tutto così difficile che non mi vergogno di dire che spesso penso al suicidio come soluzione finale… non soffrirei più, nessun dolore, nessuna delusione, nessun dispiacere. Sono profondamente, irrimediabilmente, incommensurabilmente infelice. Anche se viva.
Mille pensieri arrivano veloci come nuvole frettolose assieme a mille desideri e mille voglie e m’incammino piano verso casa, che ancora una volta non è la mia. Sorrido, e penso a quando potrò finalmente dire “la mia casa” oppure “vieni a casa mia” ad un’amica, ad un amico. Forse mai. Sono provvisoria, come la vita. Sono sempre fuori posto, altrove. Aliena. Estranea. Inadatta. Inadeguata. Incongruente. Straniera.
Una pecora nera, appunto. Una che vive in modo diverso, non conforme. Non conforme a cosa, a chi? Diverso da cosa, da chi?
Così è sorridendo che cerco di cancellare una parte di me, un pezzo di vita. E ne scrivo una nuova adesso. Domani è sempre un altro giorno. In tutti i sensi.
Buon riposo. Buon sonno. Buona esistenza. Buona vita. Buon tutto. Che Dio vi benedica. Che siate benedetti.
A tutti quelli che ancora sanno e vogliono sognare.
Qualunque sia il vostro sogno, osate, volate alto, non limitate la vostra mente e le vostre possibilità.
Fino in fondo, osate. Prendete a piene mani questa vita, afferratela e tenetela stretta e non fatevela portare via da nessuno, difendetela ad ogni costo con le unghie e con i denti, respirate a pieni polmoni questo meraviglioso prana vitale che è il respiro del mondo, dell’universo, mangiatela, questa vita, ingozzatevi di essa, fatene indigestione, riempiteci lo stomaco e le budella, vivetela senza paure, le paure limitano e condizionano, e si rinuncia a vivere diventando schiavi. Osate. Senza freni, senza timori, senza paure.
Domani è lunedì.
Marzia Schenetti